10 anni nella pancia del gigante d’acciaio. Terza parte: dal boom alla crisi

di Vincenzo Vestita

Nel 2006 in ILVA si verificava una inversione di tendenza rispetto all’organizzazione che la proprietà aveva dato allo stabilimento nei primi 10 anni dall’acquisizione. Se inizialmente si era spinto, anche in maniera molto marcata, su una internalizzazione di molte lavorazioni, anche di rilevante importanza, la tendenza che prevalse allora era quella di esternalizzare, utilizzando moltissime ditte d’appalto. Furono smantellati interi reparti di manutenzione con centinaia di addetti, smistati successivamente negli altri reparti. I manutentori ILVA si occupavano ora maggiormente di manutenzione ordinaria, mentre per quella straordinaria e per le opere di miglioramento impiantistico l’utilizzo di manodopera esterna era diventata quasi la regola. Il parcheggio della “portineria imprese” straboccava di automobili, molte lasciate anche sul ciglio della strada in posizioni poco ortodosse. Non era assolutamente raro veder entrare in fabbrica di primo mattino operai in tuta arancione (obbligatoria per tutte le ditte d’appalto, per distinguerle sugli impianti ad una semplice occhiata) e vederli uscire con la stessa tuta arancione per cambiarsi nel bagagliaio dell’auto.
Tutto questo era sintomo che in fabbrica non erano dotati di spogliati e docce, perché probabilmente la loro ditta era di dimensioni troppo piccole oppure perché effettivamente il loro numero era talmente elevato che non vi era una organizzazione tale da permettere a tutti di avere questa possibilità. Questi lavoratori operavano in condizioni molto difficili all’interno della fabbrica; era molto frequente che chiedessero in giro guanti, mascherine, addirittura bottigliette d’acqua. Per di più spessissimo lavoravano ben oltre le 8 ore canoniche, specialmente quando la data ultima di consegna della commessa si avvicinava.
Era un periodo in cui la frenesia iniziava a farsi elettrica nell’aria. Nel 2006 l’ILVA aveva iniziato a macinare grossi utili, il mercato dell’acciaio tirava. E’ come una macchina da formula uno spinta quasi al massimo: inizi a vedere da dove puoi limare via quei decimi che ti permettono di fare una prestazione migliore. Mi accorgevo di come i responsabili fossero diventati improvvisamente più attenti alla durata delle fermate per il controllo dell’impianto e di come, in presenza di fermate non preventivate a causa di qualche problema, arrivassero immediatamente per coordinare i lavori e ripartire nel più breve tempo possibile, non senza qualche discussione ogni tanto sul metodo di lavoro più sicuro (che spesso non corrispondeva a quello più rapido). E dire che producevamo solo pietre, che per quanto utili al processo di fabbricazione dell’acciaio, non erano certo un prodotto finito. Parlando con altri amici che lavoravano in altri reparti trovai conferma di questo andamento: iniziavamo ad essere “tesi come le corde di un violino”.
L’essere messo costantemente sotto pressione ti toglie molta di quella lucidità e tranquillità di cui necessiti per fare un lavoro delicato e di responsabilità. Si aggiunga il fatto che i turni iniziarono ad impattare pesantemente anche sulla qualità della mia vita. Il mio ritmo circadiano era oramai completamente sballato. Avvertivo costantemente un senso di stanchezza. La notte non riuscivo a dormire per più di qualche ora, mentre quando tornavo a casa dal turno di mattina dormivo tutto il pomeriggio fino a tarda sera. Ci sono lavoratori che farebbero carte false per entrare in turnazione, se hai famiglia quei 300 euro in più al mese fanno molto comodo. Molti amici della mia squadra di lavoro mi diedero del matto quando andai a parlare col capo-area per chiedere di uscire dalla turnazione. Fu molto disponibile, mi chiese i motivi per i quali avevo preso quella decisione e mi chiese se fossi disposto a far parte di una squadra di manutenzione in formazione che avrebbe dovuto gestire tutti quei miglioramenti impiantistici fatti nell’ultimo periodo, dalla sensoristica alla supervisione. Accettai di buon grado perché andava incontro alla mia necessità di regolarizzare i miei orari di lavoro e anche perché mi sembrava un lavoro più stimolante e mai uguale a sé stesso. Avrei potuto anche estendere la mia conoscenza dello stabilimento oltre l’impianto PCA, poiché bisognava occuparsi anche degli altri impianti dell’area, ossia i Forni a Calce e l’impianto di Bricchettaggio che erano dislocati quasi ai 4 angoli dello stabilimento. Inoltre non avrei fatto più parte del personale cosiddetto “di comandata”. Vi sono nello stabilimento circa 550 postazioni “di comandata” che, in occasione di scioperi, sono obbligati ad entrare nello stabilimento per garantire la sicurezza e la supervisione degli impianti. In molte occasioni, specie nel caso in cui si scioperava in risposta ai lavoratori morti in fabbrica, entravo in fabbrica controvoglia. C’era quella rassegnazione mista ad impotenza che ti portava a credere che uno sciopero estemporaneo non avrebbe cambiato poi molto le cose, ma c’era anche quella voglia di misurarsi in qualche modo per migliorare le condizioni di lavoro in fabbrica.

Nel febbraio del 2007 ero in forza alla nuova squadra di “automazione e strumentazione” del mio reparto. Iniziai ad interessarmi ed informarmi anche di quello che gira intorno al lavoro di metalmeccanico. In previsione di una assemblea tra i lavoratori sul “collegato Welfare”, in cui poi si sarebbe votato, preparai un intervento, studiando attraverso internet l’argomento. Dopo l’assemblea il segretario generale provinciale della UILM, ora segretario nazionale, venne a stringermi la mano dicendo “Era da tanto che nessuno mi metteva così in difficoltà in una assemblea”. Io ricambiai la stretta di mano preannunciandogli che sarebbe arrivata la mia cancellazione dal suo sindacato perché non ne condividevo il percorso. Il mio reparto fu uno dei pochissimi in ILVA in cui prevalse in maniera larga il NO. Mi iscrissi alla FIOM/CGIL.
Il 2007 è stato l’anno dei record di produzione. Furono prodotte oltre 10 milioni di tonnellate di acciaio. Gli utili netti dell’azienda, in gran parte dovuti al sito di Taranto, furono quasi di 900 milioni di euro. L’utile netto per addetto fu di 42.000 euro; come dire che ogni operaio, a prescindere dalla mansione, si ripagava due volte il proprio stipendio. Tutti coloro che operavano nello stabilimento erano chiamati a contribuire al raggiungimento del risultato. Produzione era la parola più usata. Il numero degli addetti delle ditte di appalto raggiunse il suo picco massimo in diverse migliaia, sicuramente più di 5.000 unità. Complessivamente credo si sia sfiorata la cifra di 20.000 lavoratori operanti in fabbrica. Avere uno stabilimento portato quasi al massimo della sua capacità produttiva, in cui centinaia di ditte lavorano a stretto contatto e senza una coordinazione sufficiente, può comportare qualche problema. Nel 2007 questi “problemi” si chiamarono Cosimo Occhionegro di 26 anni, morto al TUB2 (Tubificio 2) perchè “lavorava come un pazzo, aveva deciso di sposarsi”1, travolto da tubi in movimento a causa del mancato funzionamento degli automatismi che bloccano i tubi a fine corsa; ed Andrea D’Alessano di 19 anni, della ditta Modomec, deceduto dopo 7 giorni di agonia ed appena 5 mesi di lavoro, centrato da una “mazzetta”, un pesante martello caduto dall’alto, che lo ha colpito, sfondandogli l’elmetto di protezione, mentre attendeva un ascensore ai piedi dell’AFO4 (Altoforno 4), in un momento in cui operavano molte ditte tutte impegnate nel rifacimento dell’impianto partito quest’anno. La perdita di quest’ultimo ragazzo mi colpì profondamente, oltre che per la sua giovane età, per essere il cugino di un mio collega di lavoro, che mi raccontava la pena dei suoi famigliari nella settimana di agonia in ospedale. Si alzavano, intanto, delle voci dal di fuori della fabbrica che, con dati alla mano, attribuivano, all’ILVA in particolare e all’area industriale (ILVA, ENI e Cementir) in generale, una situazione ambientale disastrosa. E’ qualcosa che si è sempre percepito con una certa facilità, ma chiamare le cose col proprio nome riesce a dare quella consapevolezza che Taranto, fino a quel momento, non ha mai avuto. Diossina, Idrocarburi Policiclici Aromatici, Benzo(a)Pirene erano vocaboli sconosciuti mentre ora sono pericoli concreti con i quale dover fare i conti in qualche modo. Ho seguito la nascita della coscienza ambientalista tarantina con molto interesse, cercando anche di dare il mio modesto contributo di idee e partecipazione, quando era nelle mie possibilità. Rimango fermamente convinto che sia necessario fare tutto il possibile per rendere queste fabbriche ecosostenibili, per quanto possibile e con ogni mezzo, almeno fin quando la exit strategy (perché c’è una exit strategy, vero?) non avrà traghettato il nostro territorio, già martoriato da una disoccupazione e da una incidenza di malattie legate all’inquinamento ben al di sopra della media nazionale, dalla monocoltura industriale a qualcos’altro. Qualcosa nella direzione giusta si è mossa ma è troppo poco per dire che si è fatto tutto quello che si poteva. Sono consapevole che bisogna fare presto, così come sono consapevole che gli arbitri di questa difficile partita siamo noi lavoratori che in quelle fabbriche ci operano. E di come la nostra coscienza collettiva non sia ancora abbastanza matura.

Nel 2008 iniziammo a vedere qualche volto nuovo con indosso la tuta dell’ILVA, che nel frattempo era cambiata, passando dal verde ad un modello diversificato a seconda della mansione (grigio scuro – personale di esercizio impianti, grigio chiaro – manutentori elettrici, blu – manutentori meccanici, beige – magazzinieri). Con un semplice colpo d’occhio si poteva avere la situazione sotto controllo. Questi nuovi lavoratori, assunti tramite agenzie, vennero subito adottati come gli “interinali”, prendendo a prestito la tipologia del loro contratto di lavoro per farne quasi una classe di lavoratori a parte. Il lavoratore interinale infatti, pur avendo la tua stessa tuta e percependo il tuo stesso stipendio, era qualcosa di profondamente diverso da te. Innanzitutto aveva un contratto che nella migliore delle ipotesi durava 6 mesi; nella media la durata non andava oltre i 2 mesi. Pur lavorando gomito a gomito con il personale ILVA, ricoprendo solitamente le mansioni di “pulizie industriali”, non era alle dipendenze dirette dell’ILVA stessa, ma doveva far riferimento per ogni suo problema all’agenzia tramite la quale era stato assunto. Un terribile gioco delle tre carte; basti pensare che per un semplice giorno di ferie questi lavoratori dovevano mandare un fax cinque giorni prima alla stessa agenzia. L’agenzia, invece, per confermare il contratto, sempre l’ultimo giorno, utilizzava un più semplice messaggino telefonico “Siamo lieti di comunicarLe che il contratto Le sarà rinnovato per altri due mesi. Si rechi in agenzia per firmare” oppure “Siamo spiacenti di comunicarLe che il contratto non verrà rinnovato”. Il nostro contratto di “formazione lavoro” a confronto era il Paradiso. Leggevo negli occhi di quei ragazzi, molte volte anche di persone con più di 50 anni, la rassegnazione ad una condizione che non ammetteva il lieto fine. Molti venivano a lavorare anche in non perfette condizioni di salute perché la malattia era un anatema e l’infortunio una condanna certa. Un giorno un lavoratore interinale, un ragazzone alto, grosso e bonaccione, sposato e con bimbi piccoli, che aveva avuto sempre e solo lavori “a nero”, mi chiese con cortesia un passaggio alla portineria. Scoprii che stava uscendo perché dall’alto gli era caduta una pietra sulla spalla e voleva andare a farsi controllare dal suo medico perché avvertiva molto dolore. Alla mia domanda sul perché non andava all’infermeria dell’ILVA a farsi medicare mi rispose solo con un sorriso sincero. Capii e non insistetti.
I sindacati all’interno della fabbrica si divisero anche sui lavoratori interinali. La FIOM asseriva che vi era il “contratto di apprendistato” quale naturale forma per introdurre nuovo personale, che dava anche alcune garanzie sulla stabilizzazione del contratto stesso. In ogni caso, in assenza dei picchi dovuti alla stagionalità delle lavorazioni, in un impianto a ciclo integrale come quello tarantino, il contratto interinale (poi sostituito da quello “in somministrazione”) non era di certo quello più indicato. La FIM e la UILM nel maggio del 2008 firmarono un accordo separato con l’azienda che prevedeva l’utilizzo di personale assunto tramite agenzie interinali e individuarono un percorso di stabilizzazione per questi lavoratori una volta superati i 37 mesi di lavoro (anche non continuativi) o i 5 contratti. Probabilmente questo accordo non ha tutelato sufficientemente i lavoratori, visto che i 750 somministrati sono stati costretti ad azioni disperate pur di rendersi in qualche modo visibili e far valere le loro ragioni. E di contratti confermati secondo le modalità di quell’accordo non c’è notizia.

Il 2008 fu l’anno dell’inizio della Crisi. I giornali e le TV non parlavano d’altro; “contagio”, “titoli tossici”, sembrava che saremmo morti per una infezione da Crisi. L’azienda spinse sull’acceleratore fino all’ultimo giorno utile. Il Treno Nastri stabilì un nuovo record produttivo e due settimane dopo l’intero reparto fu posto in cassa integrazione. Successivamente in una intervista al Sole 24 Ore, il patron Emilio Riva dichiarò che i servizi segreti lo interpellarono perché da immagini satellitari risultava una grossa scorta di acciaio nel sito tarantino. Per noi lavoratori fu tutto abbastanza repentino, nonostante nell’aria ci fosse la sicurezza che prima o poi l’onda della Crisi ci avrebbe colpito. L’azienda, avendo il polso preciso della situazione, si preoccupò, per sua stessa ammissione, di predisporre consistenti scorte.
Si iniziò a parlare di Cassa Integrazione, ma nessuno di noi l’aveva mai conosciuta. Il mercato dell’acciaio aveva vissuto in passato molti bruschi rallentamenti e ricordo che mio padre era stato molte volte in “Cassa”. La CIGO (Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria) non colpì tutti nello stesso momento e nello stesso modo. L’ILVA è uno stabilimento estremamente complesso; alcuni reparti furono fermati immediatamente e per un periodo piuttosto lungo (come detto il treno nastri fu uno di questi), mentre altri subirono dei ridimensionamenti più o meno importanti specie in corrispondenza del picco massimo della Crisi in cui il personale andava in Cassa a rotazione, consumando prima le ore di ferie residue (Cassa Integrazione a zero ore). Alcuni reparti (pochi per la verità) non furono toccati. Convivere con uno stipendio di 800 euro scarsi era un dramma per moltissimi colleghi che da pochi anni avevano deciso di metter su famiglia e accendere un mutuo (che da solo richiedeva cifre molto vicine a quanto si riusciva a percepire in Cassa). Si formò un “Comitato di Lavoratori in Lotta” che chiedeva ai sindacati di impegnarsi per ottenere una integrazione salariale per portare gli stipendi a livelli più accettabili e di cercare di garantire, per quanto possibile, gli interinali e i lavoratori degli appalti. I sindacati riuscirono ad ottenere una integrazione salariale che portava gli stipendi vicini alla soglia (anche psicologica) dei 1.000 euro, mentre per gli interinali e i lavoratori dell’appalto, partita molto più difficile e complessa, non si riuscirono ad ottenere risultati degni di nota.
Il ritmo di lavoro si abbassò repentinamente, almeno per i dipendenti diretti ILVA. Le aziende d’appalto continuarono a lavorare a ritmo sostenuto fino alla fine delle commesse già assegnate. E come sempre una conferma indiretta sono purtroppo gli incidenti mortali. Nel 2008 morirono in fabbrica 3 lavoratori, tutti e 3 assunti da ditte dell’appalto, di cui 2 extracomunitari (con dinamiche molto simili). C’è chi legge la situazione esclusivamente attraverso i bollettini economici, i fatturati e gli utili netti. Personalmente non riesco ad abituarmi all’idea che ci siano ragazzi che entrano in fabbrica con le loro gambe per guadagnarsi il pane e poco più e ne escano in Mercedes chiusi in una cassa.

A distanza di 3 anni dall’inizio della Crisi, passando attraverso periodi di cassa integrazione ordinaria prima e straordinaria poi, l’azienda ha operato una profonda riorganizzazione che ha visto molti lavoratori prestare la loro opera in reparti diversi da quelli ante-crisi. La ripartenza, pochi mesi fa, dell’Altoforno numero 4, già finito e pronto a partire da più di un anno, segna probabilmente l’uscita dalla fase più grave. Produttivamente lo stabilimento sta ripartendo ma porta dietro di se tanti problemi irrisolti.

Attualmente prestano la loro opera nell’ILVA circa 11.500 lavoratori diretti. I lavoratori in somministrazione sono in attesa che l’azienda dia gambe all’accordo preso con la mediazione della Regione Puglia e degli oltre 5.000 lavoratori delle ditte d’appalto che operavano nel 2007 ne sono rimasti meno di 2.000, ad esser larghi. Per fortuna nel 2009, 2010 e in questa prima parte del 2011 non abbiamo dovuto piangere altri morti in fabbrica. Se questo sia merito di una maggiore attenzione dell’azienda alle problematiche di sicurezza, del ritmo produttivo che si è fatto più sostenibile e meno frenetico, degli operai diventati più coscienziosi o di tutte queste cose insieme, solo il tempo ce lo potrà dire.