Il Risorgimento dietro le sbarre

di Salvatore Romeo (’85)

Ogni giorno, psicologi e pedagoghi di tutto il mondo si interrogano su quale sia il momento preciso in cui i bambini abbandonano l’infanzia per entrare nel complesso universo di vestiti sempre più grandi ed ormoni propri dell’adolescenza. Nonostante il dibattito sia molto acceso e interessi diverse “correnti” della psicologia moderna, gli studiosi non riescono a pervenire ad una risultato comune: non si riesce a stabilire la giusta età in cui si comincia la scalata verso la “maturità” . Al riguardo, ho un’idea del tutto personale. Provate a ripensare, con estrema attenzione ed un poderoso sforzo di memoria, a quando da bambini, molti dei vostri “miti ed eroi” sono svaniti. Chi di voi non ha sentito crescere dentro di sé una sensazione di delusione mista ad ira, alla vista del proprio padre prono dinnanzi all’albero di natale, nella notte della vigilia, nell’intento di porre i regali tra la grotta del nascituro e le luci dagli improbabili colori? O chi non ha provato un vago senso di inquietudine e stupore nel frangente in cui, un cugino più grande e certamente più smaliziato, non gli ha spiegato la vera alchimia celata dietro la nascita dei bambini? Dunque, la distruzione dei “miti” segna ineluttabilmente il passaggio dallo stato di “soggetto infante ad soggetto adolescente”.

Vi starete domandando quale sia il reale intento di questa introduzione. Bene, sarà presto spiegato. Pensate se un giorno un ragazzo “di borgata”, con un racconto di cento minuti ed uno spazio di due metri per due, venisse e sradicasse 150 anni di certezze e “miti”. Come vi sentireste se rappresentassero la figura di Giuseppe Garibaldi non come l’ ”eroe dei due Mondi” ma piuttosto di un abile stratega che tramite accordi, saggiamente alternati, con Stato sabaudo, latifondisti locali ed eserciti più o meno regolari, riuscisse ad ottenere l’unificazione dell’Italia? Ma non solo della distruzione dei miti dell’unità d’Italia racconta il nuovo lavoro di Ascanio Celestini.
Pro patria è la storia, ambientata negli anni settanta, incipit del periodo del “terrore” italiano, di un detenuto che, nell’intento di scrivere l’arringa del processo in cui è imputato, rivolge il suo sguardo, giovane ed innocente, ed i suoi pensieri agli avvenimenti che portarono all’unificazione italiana. E non per ampliare la sua cultura storica o per particolare curiosità ma “costretto” dalla legge: stando alle norme infatti, i detenuti possono leggere al massimo tre libri al giorno, la maggior parte dei quali sono censurati: ciò per evitare che testi troppo “forti” possano favorire l’insorgere di ribellioni. Gli unici libri esenti dalla “correzione” dello Stato, sono i libri che raccontano avventure del passato. Così per un detenuto è facile imbattersi nelle “Memorie politiche ” di Felice Orsini o nelle “Lettere” dei fratelli Bandiera e di Ciro Menotti o le “Guerre combattute in Italia” di Carlo Pisacane, in cui il Risorgimento è raccontato per come è realmente avvenuto: storie di lotta armata e galera. E come potrebbero mai queste storie incitare alla ribellione? Il monologo, come da tradizione negli spettacoli di Celestini, è tutto incentrato sulla dissonanza tra i racconti di ribellione propri dell’unità italiana, raccontati con un abile stratagemma ad una velocità davvero sostenuta, e lo “stato” di detenuto, costretto a scontare una pena esemplare (“fino al giorno 99 del mese 99 dell’anno 9999” e non provate a chiamarlo ergastolo) , per istigazione alla rivoluzione (il detenuto arrestato per il furto di due mele, si è ritrovato immischiato in un tentativo di evasione). E la monotonia della vita in cella viene spezzata solo da qualche topo e dal dialogo con un interlocutore molto particolare: Giuseppe Mazzini. Ed è proprio sulla figura silenziosa e sconfitta dell’ “eroe” della Repubblica Romana, che in realtà si limita ad unica ma fondamentale battuta finale, che si snoda la narrazione. La Repubblica Romana, laboratorio di idee rivoluzionarie in cui, nella breve parentesi della sua durata,” ci fu un governo democratico, si votò per la scuola pubblica e laica, per la libertà di culto e contro la religione di Stato, si sancì che il lavoro è un diritto e nacque la Costituzione che cento anni dopo diventerà quella della Repubblica italiana. Poi tornò il Papa e ripristinò censura e ghigliottina, stracciò la Costituzione e processò tremila cittadini”. A capo della repubblica romana un triumvirato: Carlo Armellini, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini, provarono ad offrire l’unica speranza che ancora univa la popolazione ormai stanca di soprusi e violenza: la libertà. Particolarmente “eretica” fu una proposta: l’abolizione delle carceri, per uno Stato senza processi, senza galere. Le galere : luoghi di circolazione di idee e possibilità di contatto tra strati sociali differenti; così nell’Ottocento. Luoghi di corruzione e malaffare, governate da secondini corrotti e senza scrupoli, così potenti da scavalcare anche gli ordini dei superiori: questo lo stato attuale per Celestini. E come dargli torto. Oggi le nostre carceri ci parlano di immigrati, tossicodipendenti, problemi sanitari, di tentativi di suicidi che nella maggior parte delle volte i trasformano in tragedia. E come non potrebbe fare comodo un suicidio nelle carceri odierne: sovraffollamento, tensioni, indulti e malcontento popolare: perché un secondino dovrebbe impedire ad un detenuto di volare via e dunque liberare un posto?
La narrazione prosegue a ritmo incalzante. Si parla dei ragazzi morti per strada a Roma nel tentativo di disinnescare le bombe; si parla dei soldati francesi che entrati in città hanno sterminato la popolazione romana malgrado l’articolo V° della Costituzione francese, che vietava l’aggressione da parte dell’esercito francese a qualsiasi fratello repubblicano; si racconta come il presidente della repubblica francese Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, successivamente auto proclamatosi imperatore con il nome di Napoleone III, abbia riportato il papa Pio IX a Roma; parla dei ragazzi italiani che persero la vita per un’UNITA’, che ancora oggi stenta ad essere rispettata.
Il finale non può, non deve essere svelato: basti sapere che come in altre opere di Ascanio Celestini, alla fine della narrazione fatta di parole che rincorrono altre parole, non trionfa il lieto fine.