Nuove lotte per la terra nella Puglia Occidentale? Intervista a Paolo Rubino

di Gaetano De Monte

Comprendere quel grande processo di trasformazione democratica che fu avviato nell’Italia, soprattutto meridionale, a partire dal dopoguerra significa far riferimento ad un mutamento storico che fu possibile anche e soprattutto attraverso le lotte. Nelle campagne. Ma anche quelle nelle fabbriche e nelle città. Conflitti che sono divenuti poi condizione fondamentale dei progressi realizzati dall’Italia repubblicana, malgrado le crisi, i mutamenti, le difficoltà, le sfasature che in certi momenti si sono verificate tra le lotte rivendicative degli operai settentrionali e le esigenze di masse di disoccupati e sottoccupati del Mezzogiorno. Conflitti – sia quelli nelle campagne che quelli nelle città – che hanno portato alla costruzione di un legame tra le forze riformatrici che avrebbe finito col rafforzare l’unità politica e sociale dell’Italia, la sua capacità di resistere alle offensive antidemocratiche, ai pericoli di stasi e di degenerazione, alle spinte corporative che erano presenti all’interno delle stesse classi lavoratrici. Oggi invece l’accusa principale che viene rivolta agli agricoltori, ai pescatori, agli autotrasportatori e alle altre categorie produttive che stanno protestando contro le liberalizzazioni del governo Monti, è di corporativismo. Come se la difesa dei loro interessi aggrediti dal mercato, o dal governo, sia contraria all’interesse dello Stato! In realtà le lotte in corso, soprattutto nelle campagne, esprimono uno stato di malessere profondo presente nella società, che non è certamente solo categoriale. Perché pretendere che il contadino ti venda le sue arance a dieci centesimi il chilo è lo stesso che pretendere dall’operaio che lavori a tre euro l’ora. Lo stesso varrebbe per gli autotrasportatori strozzati dai petrolieri, dai pedaggi e dalle multinazionali per le quali lavorano.

Sono in fermento, in questi giorni, anche gli agricoltori ionici. I contadini di quest’angolo di Puglia proteso verso occidente nel secondo dopoguerra hanno subìto trasformazioni nel rapporto di lavoro e nel tipo di lotta sindacale e politica che hanno portato non solo a registrare le punte più alte e qualificate di conquista, ma hanno gettato le basi dello stesso rinnovamento delle strutture agricole. Oggi subiscono condizionamenti di natura diversa e a difenderli non vi sono più le Camere del Lavoro, la Federbraccianti e politici di ampie vedute. Pertanto sono sempre più rari da trovare esperti di agricoltura come Paolo Rubino, ex parlamentare e fondatore del Tavolo Verde, protagonista di molte battaglie per l’agricoltura e gli agricoltori ionici. Con lui Siderlandia ha voluto fare una lunga e piacevole chiacchierata, per sapere cosa sta succedendo alla terra.

Dati della commissione europea per l’agricoltura parlano di una perdita costante nel reddito del 4,5% per le aziende agricole italiane. Un altro dato: 750 mila piccole e medie imprese agricole hanno già chiuso in Italia. Che sta succedendo alla terra?

La crisi della terra è una crisi che viene da lontano, dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale; sin da allora infatti, soprattutto in Italia, l’agricoltura è stata condizionata da cattive politiche che le hanno affidato un ruolo marginale e subalterno rispetto ad altri settori produttivi, in special modo rispetto a quello dell’industria pesante. Quello della subalternità dell’agricoltura alla grande industria, è sicuramente qui un dato imprescindibile da cui partire per muovere qualsiasi tipo di analisi, soprattutto riguardo la provincia di Taranto.

Come è possibile oggi, nell’era della finanziarizzazione dell’economia, rompere e ribaltare proprio quel rapporto di subalternità che risale al tempo del fordismo, che in passato ha relegato l’agricoltura ai margini rispetto ad altri settori produttivi, ma che adesso la stringe invece in una morsa dettata e imposta dalla grande distribuzione, dalle multinazionali e dalle catene del settore alimentare?

Io credo, e lo dico qui senza alcuna pretesa di egemonismo, che da questa crisi, che è sistemica, si esce solo rompendo questo rapporto, sciogliendo questo nodo che interessa non solo l’agricoltore, ma tutta la comunità, perché restituire centralità all’agricoltura significa interessarsi a quello che mangiamo, significa dare importanza alla qualità di un bene comune come il cibo.

Un ruolo politico importante a livello mondiale, per il settore agricolo, lo riveste sicuramente l’ Unione Europea che destina circa il 40% del suo bilancio alla Pac ( la politica agricola comune). Ma a quale agricoltura vanno questi soldi? Non sarà che anche qui si privilegia prevalentemente l’agricoltura di quantità, quella dell’agrobusiness, dei grandi mercati internazionali, delle monocolture? E qual’ è il margine di intervento possibile, in uno spazio politico così ampio come quello europeo, per i piccoli produttori?

In Europa permane ancora, rispetto al tessuto agricolo- produttivo americano, una costellazione di piccole e piccolissime imprese, che riescono a sopravvivere a fatica di fronte a scelte politiche che privilegiano la rendita a scapito del lavoro. Il riferimento qui è al tema dei contributi dati alle aziende agricole, riconosciuti non in base alla capacità di produrre ma all’estensione del territorio. E’ chiaro quanto non si può considerare alla stessa maniera un ettaro di terra adibito a pascolo della Scozia, con un ettaro di terra adibito alla coltivazione di fragole del metapontino – che richiede di per sé già all’inizio una notevole spesa per la manodopera. Non vi è quindi un problema soltanto del piccolo che viene fagocitato dal grande, ma di un’agricoltura mediterranea che richiede impiego intensivo ed in notevole quantità di lavoro e manodopera, che viene penalizzata rispetto a quella continentale, soprattutto rispetto all’accesso ai finanziamenti comunitari.

Di cosa ha bisogno l’agricoltura, per parafrasare Alexander Langer, perché sia più lenta, più dolce, più profonda? Perché sia di qualità, rispetto al prodotto e alla produzione, perché abbia come obiettivo primario il cibo per le persone e non le merci per i mercati?

Non solo l’agricoltura, ma tutti noi abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di CO2 – in larga percentuale addebitabili agli allevamenti intensivi, al trasporto di generi alimentari per le grandi distribuzioni, agli sprechi energetici che il sistema alimentare globale impone. Abbiamo bisogno di ridurre gli sprechi perché un terzo del cibo prodotto finisce direttamente nella spazzatura (e occorre ulteriore energia per smaltirlo). Abbiamo bisogno di proteggere le risorse come gli oceani, le acque interne e l’aria da un processo di inquinamento chimico che non può più essere tollerato. Abbiamo bisogno di proteggere le economie locali e i mercati di prossimità, che possono rivitalizzare le nostre aree rurali e farle tornare ad essere luoghi di benessere, di produzione di reddito, di valori aggiunti, di occupazione giovanile.

L’11 gennaio scorso a Roma, si è costituita la Federazione Italiana dei Movimenti Agricoli alla quale il Tavolo Verde, l’organizzazione di cui lei fa parte, ha aderito da protagonista. “Né Forconi, né sindacalisti da carte bollate vi hanno definito”. Quale è il rapporto di questa organizzazione con il movimento dei Forconi siciliani che, pur nella nobiltà delle sue rivendicazioni, presenta al suo interno criticità e contraddizioni?

La nostra organizzazione già in passato ha stretto rapporti e guarda con interesse al movimento dei pastori sardi, fermo restando che si riserva di valutare eventualmente la costruzione di legami e relazioni con altri gruppi sociali che condividano la stessa necessità di un cambiamento radicale nel sistema produttivo nazionale e globale. Per questo, ad esempio, abbiamo già aderito in passato, e continueremo a farlo in futuro, alle lotte che vedono coinvolti i lavoratori della Fiom per la democrazia nei luoghi di lavoro. Sia nelle città che nelle campagne, infatti, la battaglia deve essere comune. Deve essere la stessa che coinvolse in un tempo ormai lontano, nel dopoguerra, operai e contadini. Per il lavoro bene comune. E per la democrazia.

Nel mondo contadino del dopoguerra in Puglia, e nell’intera Italia meridionale, vi furono due svolte storiche fondamentali: sia la riforma agraria, sia l’immissione nella lotta politica nazionale di grandi masse popolari e contadine che per tutto il precedente corso della nostra storia erano rimaste estranee e subalterne – ed il loro collegamento, attraverso i grandi partiti nazionali, con le forze sociali e politiche operanti nelle regioni meridionali. Un fenomeno che condusse ad importanti conquiste. Oggi invece, chi rappresenta e difende i contadini dalle distorsioni causate dei flussi economici globali?

In passato sia i comunisti che democristiani avevano una politica agricola nazionale. Con la scomparsa, invece, dei tradizionali partiti democratici di massa si è assistito a uno smarrimento nella rappresentanza, che ha condotto l’agricoltura italiana ad avere un ruolo subalterno rispetto agli interessi dei grandi gruppi economici. Perciò in Italia, oggi, si assiste al paradosso per cui l’unica politica agricola è condotta dalle multinazionali e dalle grandi catene di distribuzione alimentari. La sfida del Tavolo Verde è proprio quella di dare voce agli interessi dei contadini, ma la sfida è naturalmente più ampia: è quella di restituire centralità al lavoro nell’ambito del più generale scontro in atto a livello globale tra capitale e lavoro, tra democrazia e reazione.

Per ciò che riguarda comunque il malessere in cui versa il mondo agricolo meridionale, il disagio è lo stesso in cui versa tutto il Sud dell’Italia, che fino alla fine della guerra, era oppresso dalla feudalità e dal baronaggio predatorio, e che oggi invece appare compresso, stretto, da vecchi e nuovi notabili da una parte, e vecchi viceré e nuovi gattopardi dall’altra, che ne impediscono il pieno sviluppo non solo socio- economico, ma anche e soprattutto politico-culturale.

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  1. Anonymous February 15, 2012 4:48 pm 

    Paolo Cinanni

    Lotte per la terra
    e comunisti in Calabria
    (1943-1953)
    “ Terre pubbliche” e Mezzogiorno

    Prefazione di Umberto Terracini
    Considerazioni tecnico- giuridiche di Guido Cervati

    Feltrinelli Editore – Prima edizione Maggio 1977

    Prefazione
    Di UMBERTO TERRACINI
    Nel 1976 il passivo della nostra bilancia alimentare è stato di circa 4 mila miliardi di lire, ma gli esperti prevedono che nel 1977 essa raggiungerà i 5 mila miliardi. Ciò è da addebitarsi prevalentemente alla nefasta politica dell’emigrazione promossa da De Gasperi e perseguita instancabilmente dai governi della Democrazia Cristiana in questo secondo dopoguerra con il rifiuto della riforma agraria pur storicamente matura e la conseguente riduzione alla fame delle popolazioni meridionali. Di qui infatti la fiumana immensa e precipitosa verso tutti i paesi del mondo di oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori italiani e il ritorno aggravato nella nostra penisola del fenomeno delle terre incolte che oggi sono valutate circa 5 milioni di ettari. L’odierna paurosa crisi dell’economia italiana, della quale in deficit della bilancia alimentare è insieme indice e causa primaria, è dunque un frutto attossicato delle scelte che sono state fatte dai governanti negli anni Cinquanta per servire interessi di una classe sfruttatrice e parassitaria, qual è la grande borghesia agraria, e per puntellarne e restaurarne l’arcaico odioso sistema di potere contro la salente impetuosa ondata rinnovatrice.
    E’ proprio questa realtà che da carattere di attualità al libro nel quale Paolo Cinanni espone, sulla base della più rigorosa documentazione , le varie vicende di quel grande movimento che, nel primo decennio dopo la fine della guerra, ebbe a protagoniste le popolazioni contadine del Mezzogiorno le quali, con slancio generoso , avevano intrapreso la trasformazione delle campagne attorno ai loro borghi miserandi occupandole e rendendole produttive a forza di braccia e con il sussidio di pochi rozzi primitivi strumenti – cominciando dalle “ terre comuni “ usurpate in un lungo passato grazie all’omertà e alla protezione dei poteri costituiti, Nessuno meglio di Paolo Cinanni avrebbe potuto rappresentarci queste vicende, egli che ne fu partecipe e ben spesso animatore e dirigente nella sua regione, la Calabria, che di esse fu all’epoca teatro preminente. Talchè si può dire si può dire che, narrandole, egli ha anche tracciato nelle grandi linee la propria biografia. Militante rivoluzionario sotto specie cospirativa ai tempi della dittatura e poi combattente nelle formazioni partigiane, fin dai primi giorni della Liberazione Paolo Cinanni aveva infatti prescelto come proprio campo preferito l’attività nella ricostruzione del paese il mondo contadino in funzione della riforma agraria, che egli avvertiva insieme come riscatto mano di immense masse lavoratrici umiliate e calpestate e come esaltazione della potenza generatrice di quegli sterminati spazi che da secoli erano stati sottratti all’opera fecondatrice del lavoro. E prodigando di volta in votale sue energie ora nell’azione politica, in incarichi anche eminenti di Partito, ora nell’attività sindacale, come organizzatore di leghe e dirigente di Camere del Lavoro, sfuggendo così ad orizzonti limitati che caratterizzano ogni specializzazione di campo, egli riuscì a comprendere nel suo intero il grandioso capitolo della storia nazionale in atto che si intitolava alla trasformazione dei rapporti di proprietà della erra e del lavoro nell’agricoltura. Fu questa globalità d’impostazione che portò Paolo Cinanni alla discoperta del valore nodale che, per la realizzazione di una seria e completa riforma agraria aveva nel nostro paese la questione delle “ terre comuni “, altrimenti dette da regione a regione “ terre aperte “ o “ demani comunali” o usi civici, denominazioni che tutte indicano le terre che al tempo delle leggi eversive della fedualità erano state riconosciute come pertinenti indivisibilmente alle popolazioni, ma che poi, con i regimi della restaurazione, erano state riprivatizzate e appropriate alla spuria progenie nata dal congiungimento della superstite nobiltà del blasone con la nuova nobiltà del denaro.
    Paolo Cinanni si persuase infatti che, per assicurare alla riforma agraria un fondamento ineccepibile di diritto sollevando nel contempo l’Erario pubblico del peso schiacciante di ogni indennità di esproprio, bisognava innanzitutto e subito , grazie alla congiuntura politico sociale conseguita alla guerra, al rovesciamento della dittatura e alla incombente auspicata radicale trasformazione istituzionale, rievocare alla collettività contadine, l’immenso patrimonio fondiario che con la violenza e con l’imbroglio, erra stato loro sottratto.
    Ma la sua concezione, valida in punto di diritto e suffragata dalle ricerche storiche da lui sempre più approfondite, non trovò recepimento non dico nelle cerchie del potere ufficiale e costituito ma neanche presso le Direzioni dei partiti asserentesi democratici e progressisti – il suo stesso compreso – e nei centri maggiori dell’organizzazione sindacale. E dire che poi, a congiuntura politica ormai intermente mutata, fu la corte Costituzionale in certe sentenze a fare propria la concezione di Paolo Cinanni, ma solo per decidere, secondo la sua competenza, di casi particolari e circoscritti, senza che l’efficacia del suo dettato potesse estendersi fino ad abbracciare il problema nel suo intero. Poi, aiutandolo spopolamento terrificante della campagne del Meridione, specie nelle regioni più assillate dal problema della riforma agraria, ed insieme il pauroso estendersi dele fenomeno delle terre incolte e abbandonate, le componenti primarie della riforma agraria vennero vanificandosi fino quasi a sparire, distruggendono così ogni prospettiva di attuazione. No per nulla la rivendicazione da lustri e lustri è scomparsa dai programmi scritti e dalla agitazione dei partiti della sinistra operaia e contadina, sostituita dalle più inconsistenti frasi sulla necessità di dedicare all’agricoltura, genericamente menzionata, attenzione e impegno nella ricerca delle vie d’uscita dalla crisi in atto.
    Ma Paolo Cinanni aveva il doppio torto della sua estrazione contadina – che per oscure e inconsapevoli vie chissà non avesse distorto egoisticamente la sua ricerca, i suoi studi le sue conclusioni – e la sua modestia che lo ha sempre portato a sdegnare ogni orpello di demagogia alle sue pur valide iniziative e impostazioni dottrinarie e d’azione politica. E per non alienarsi dal maggior movimento , col quale ha stretto sempre legami inscindibili, accetto di fare opera per il raggiungimento anche di obbiettivi che tuttavia avvertiva inidonei per attuare o anche solo avvicinare quel decisivo mutamento che resta per lui o dovrebbe essere per tutti i rivoluzionari irrinunciabile in questo periodo storico del nostro paese: la riforma agraria nelle campagne della Repubblica.
    Nell’ultima parte del suo lavoro Paolo Cinanni parla delle caratteristiche che dovrebbero essere del militante comunista, è in modo tale da offrire un prezioso contributo ad un altro irrinunciabile scopo dell’azione alla quale si è votato : il rinnovamento dell’uomo come operatore del rinnovamento dei rapporti che intercedono fra l’uomo e la natura e fra gli uomini stessi all’interno delle collettività nelle quali essi si raccolgono per affrontare la natura . Paolo Cinanni infatti è stato in ogni momento della sua vita combattiva anche un educatore specialmente nei confronti dei giovani, ai quali ha dato un esempio mirabile di rigore morale, di severità intellettuale e di coerenza politica.
    Del che questo libro ci reca un’ennesima luminosa testimonianza

    Roma 7 marzo 1977

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