Quel paradosso chiamato Taranto. Intervista a Cosimo Argentina

di Salvatore Romeo (’84)

Leggere le pagine di Cosimo Argentina è come tornare a casa. Una casa che forse non è mai esistita per te che neanche c’eri al tempo in cui quelle storie sono ambientate, ma che senti comunque tua. E’ la casa dei tuoi, quella che trasuda di vite sospese fra l’abitudine e la follia, di pomeriggi buttati nei cortili, di urla di madri e di ragazzi… Cosimo Argentina nasce a Taranto 49 anni fa, si laurea in Giurisprudenza a Bari, nel 1990 si trasferisce in Brianza. Nove anni più tardi pubblica il suo primo romanzo, “Il Cadetto”; ne seguono altri otto – fra i quali “Cuore di cuoio” e “Maschio adulto solitario”. L’ultimo, uscito nel 2010, è “Vicolo dell’acciaio”, quasi un’elegia della Taranto della sua giovinezza. Argentina è forse l’autore che meglio ha saputo esprimere lo spirito contraddittorio, quasi schizofrenico della nostra città – isola metalmeccanica in un mare di paesaggi rurali – e della sua gente. Parlare con Cosimo è come sentirsi a casa. Anche in una Milano gelida e innevata.

Quando parli di Taranto ne tuo libri si respira quasi un’aria di elegia: il ricordo è un elemento molto forte e la descrizione di situazioni e sensazioni è talmente intensa che viene l’impressione che, scrivendole, tu le abbia come rivissute. La letteratura per te è un modo per riappropriarti del tuo vissuto?

Quando ti siedi davanti a un foglio hai uno scorrere di immagini che erano già nella tua testa; la scrittura è solo l’atto finale: quelle immagini in realtà hanno germogliato per lungo tempo dentro di te. Alla fine si tratta solo d contabilizzare quello che avevi messo da parte. Si tratta quindi di una rivisitazione. E poiché sono rimasto a Taranto fino ai 27 anni, sempre nel quartiere dove sono nato fra l’altro, è inevitabile che le mie immagini rimandino a quel mondo.

Quello del quartiere è un elemento fondamentale ne tuoi libri sulla città: la solidarietà fra vicini, quella fra amici. C’è un elemento di nostalgia rispetto a questo?

La nostalgia secondo me è misura del fatto che sai che quelle sono tutte cose che non tornano. Paradossalmente posso provare nostalgia anche di quello che mi è successo l’altro giorno. Su Taranto la nostalgia è dovuta al fatto che ogni volta che torno trovo un dato forte: che piano pano la città diventa sempre più omologata alle città che vedo in giro. Per fortuna però non succede ai Tarantini! La città va scimmiottando le altre, che a loro volta si scimmiottano fra loro, però i Tarantini mantengono una loro peculiarità. Da una parte si sgretola la Taranto che ho conosciuto fino ai miei vent’anni – quella che ho narrato fino ad ora –, dall’altra però Tarantini che ho frequentato li ritrovo identici a come li ho lasciati.

E anche quel clima “del quartiere” è lo stesso?

No, quello no. Ma quello è legato anche ad un’esperienza personale: io ho vissuto in un quartiere dove c’erano tutte giovani coppie con figli che andavano dai due ai quindici anni. Quindi la via era piena di gente, ci si conosceva tutti, ciascuno controllava gli altri. Tornando adesso il palazzo di mia madre è diventato una specie di “palazzo dei fantasmi”. Nel senso che o ci sono persone anziane, come mia madre, oppure coppie giovani che ancora non hanno figli. E si percepisce che la solidarietà che c’era un tempo si è andata perdendo. Poi mi raccontano che inevitabilmente l’aspetto frenetico della vita anche dalle nostre parti ha portato via certe caratteristiche: le porte aperte, la vicina che ti porta il brodo…

Per non parlare della vita in strada…

In strada è diventato ormai impossibile viverci. Fai conto che in via Calabria, dove vivevo, facevamo il torneo di pallone; poi a un certo punto qualcuno alzava la mano e urlava “macchina!” e tutti si fermavano. Ora ci sono le file di auto… a momenti è la macchina che quando passa dice “bimbo!”. Gli spazi per le persone si sono molto ristretti: questa è una cosa che mi ha colpito. Una volta per i ragazzini ogni angolo era buono per tirare due calci a un pallone o chiacchierare. Adesso per avere un posto dove poter bere qualcosa devi pagare e i figli dei miei amici vanno a giocare a calcetto a pagamento. E questo non ti permette di fare quelle partite ad oltranza che iniziavano alle due del pomeriggio e finivano col buio. C’è stata una commercializzazione degli spazi. Mi ricordo anche quando andavamo a mare a Lido Silvana e il gestore vedeva entrare una “cofana” di ragazzini: capiva che eravamo infiltrati ma non diceva niente. Pensa oggi a fare una cosa del genere…

C’era un “mondo dei ragazzni” quasi separato dal resto…

Certo. Si potevano creare queste piccole comunità. Noi eravamo praticamente autonomi e con quattro lire potevamo “fare la settimana”. Oggi che quegli spazi sono venuti a mancare i surrogati che ti offrono hanno un costo che non tutti possono permettersi. E così vengono fuori i ragazzini “di serie A” e quelli “di sere B”.

C’è un tuo famosissimo incipit che dice “prima d tutto vorrei dire una cosa: Taranto non è in Puglia, è a Taranto”. Riconosci che c’è una sorta di eccezionalità della città: secondo te a cosa è dovuta?

E’ una convinzione che ho maturato vivendo vari posti della Puglia. Se poi guardi alla geografia t accorgi che c’è questo arco di città pugliesi e poi Taranto quasi staccata, in basso. Questo ha creato una sorta d isolamento, nel bene e nel male. L’aria che si respira, il sistema sociale caratteristico della città non l’ho visto riprodotto da altre parti. Sono stato moltissimo a Bari: ci sono delle analogie, ma il fatto che Bari abbia avuto uno sviluppo mercantile, una vita culturale molto più cosmopolita la rende molto diversa. Taranto forse era una città destinata a rimanere relativamente piccola, tipo Ascoli, con una popolazione attorno ai 40/50 mila abitanti.

A questo proposito c’è una sorta di paradosso: Taranto nasce come isola e rimane isola per secoli, fino alla fine dell’Ottocento; dopo, con l’avvento dell’industria, matura una immigrazione fortissima – le famiglie dei tarantini “fino alla settima generazione” oggi sono pochissime –, però anche i discendenti di quegli immigrati sentono un’identità tarantina incredibile. Come la vedi questa cosa?

C’è stata una sorta di “contaminazione al contrario”. In realtà il crogiolo a Taranto ha origini antiche: sono sempre passate dalla città persone da ogni parte del mondo; non si è passati da una situazione di chiusura a una di apertura. Ma invece di contaminarsi la città ha contaminato. C’è stata una sorta di forza centripeta. La mia stessa famiglia non è originaria di Taranto, ma se mi dovessero chiedere in quale luogo mi identifico io direi senza dubbio “Taranto”. Mi viene in mente un paragone con Manchester: un posto periferico, inquinato, rovinato ma talmente segnato da queste ferite che i suoi abitanti ribadiscono la loro appartenenza più della gente di tanti altri posti “alla moda”. Sembra quasi una reazione a un po’ di “batoste” ricevute nel tempo.

Riprenderei proprio questo parallelo che fai. Proprio i personaggi che vedi nei film di Ken Loach, per esempio – queste figure della working class –, a volte li ritrovi anche a Taranto. Dal punto di vista “antropologico” sono molto simili: è lo stesso ibrido di uomo che viene dalla provincia – spesso dalla campagna – e che si deve adattare ad un ambiente urbano industriale. E spesso ne esce fuori un tipo “schizofrenico”. Caratteri del genere li si ritrova anche nei tuoi romanzi…

Sì, è dall’aspetto “impuro” che viene la forza. E’ proprio quella contaminazione che crea personaggi unici. Ancora adesso quando giù vado a pagare le bollette a mia madre ritrovo gli stessi commenti, lo stesso modo di approcciarsi alle cose che vedevo trent’anni fa. Certo c’è un processo di evoluzione (a volte d involuzione), però c’è una “resistenza della tribù” forte, che forse si è formata proprio sui traumi che si sono subiti. Tu pensa al panorama pugliese o meridionale in generale: da questo punto di vista Taranto è marginalizzata nell’immaginario collettivo. La gente di fuori preferisce magari il Salento o il Gargano per le vacanze e Taranto resta quasi al di là del confine.

Fra l’altro tu sei uno dei pochi autori di Taranto che fa i conti con quella realtà ibrida che dicevamo…

Questo dipende da un fattore letterario e da uno biografico. Quando scrivo o quando immagino una storia sono sempre più interessato al personaggio che ho di fronte piuttosto che allo sfondo o al paesaggio. E i personaggi che da sempre mi affascinano di più sono quelli un po’ “allo sbando”. Poi tieni conto che nel quartiere dove vivevo io quasi tutti lavoravano o all’Italsider o all’Arsenale. E tutti i genitori dei miei amici incarnavano quella tipologia di personaggio e quindi li potevo studiare in maniera sistematica.

C’è però anche chi preferisce rimuovere…

Certo, anche perché una parte degli scrittori preferisce muoversi su terreni più commerciabili. Io capisco che le mie storie siano risultate ostiche a molti lettori rispetto a quelle della media degli autori pugliesi emergenti, ma il fatto di non dover rispondere a esigenze commerciali mi ha permesso di affondare meglio il colpo. Con “Vicolo dell’acciaio” ho messo in scena il mio micro-mondo, che però era rappresentativo di quella città in quel particolare momento storico.

Le storie sulla tua provincia metalmeccanica le hai raccontate però da un’altra provincia metalmeccanica: la Brianza, dove vivi. La distanza ti ha aiutato a riordinare i ricordi?

A me la distanza ha giovato moltissimo. Stando a Taranto penso che non avrei mai scritto quelle storie. Sicuramente più ti allontani più maturi una visione cristallina e nitida di quello che avevi. Quando giù facevo le mie prime esperienze di scrittura raccontavo di posti lontanissimi e non avrei ma pensato di scrivere della mia città. E’ un po’ come in una poesia del Belli dove c’è un garzone che lavora in un panifico davanti al Colosseo e non l’ha mai guardato e si stupisce che arrivino tutti quegli stranieri ad ammirare “sto rudere”. Allontanandoti da una cosa invece metti sempre più a fuoco i particolari.

Sul tuo stile quanto ha influito la tua esperienza di vita in quegli ambienti che dicevi prima e quanto invece le passioni letterarie che hai coltivato (per esempio si sente molto l’influenza di grandi “maledetti” della letteratura contemporanea: da Celine a Bukowski)?

In realtà i miei primi romanzi avevano uno stile molto minimalista. Da “Cuore di cuoio” in avanti le cose sono cambiate. Quella storia l’ho scritta per dei miei amici e quindi ho pensato che avrei dovuto scriverla nel modo in cui l’avrei raccontata a loro se ci fossimo trovati a chiacchierare. E allora ho capito che cercare il proprio stile significa avvicinarsi sempre più alla voce che hai dentro. Sicuramente ci sono quei rifermenti che tu hai citato (e aggiungerei anche una parte della letteratura araba), ma la ricerca di quella “voce” è diventata da quel momento fondamentale. D’altra parte credo che ormai sia già stato scritto tutto in termini di storie quindi la partita si gioca non più sul “cosa”, ma sul “come”. E’ il modo di raccontare che ti permette di scattare sulla fascia e correre libero, distinguendoti da tutti gli altri. La cosa più complicata per un autore è proprio questa: arrivare al punto in cui hai trovata la tua scrittura. E questo probabilmente lo fai con l’ultimo romanzo.

Come te lo immagini il tuo “ultimo romanzo”?

Anzitutto faccio i dovuti scongiuri… No, me lo immagino molto semplice. Una cosa come quella che ha fatto Melville con “Bartleby lo scrivano”: in cinquanta pagine permetti al lettore di chiudere e restare a bocca aperta. E’ una storia semplicissima in fondo, ma messa in scena così bene che sarebbe stato del tutto inutile prolungarla. D’altra parte il fatto che io abbia avuto meno successo di altri autori pugliesi mi permette di sperimentare in continuazione. Se infatti “spacchi” già col primo o col secondo romanzo pensi di aver trovato la formula e questo spesso ti porta a correre un rischio molto pericoloso: quello di rifare te stesso. Pensiamo a “Va dove ti porta il cuore”: con quello la Tamaro ha raggiunto una popolarità incredibile, ma i successivi romanzi sono stati una lenta agonia. Quando invece ti aggiri intorno alle 3.000 copie di vendite ti viene da continuare la ricerca in maniera forsennata e ossessiva. Questo ti permette di avere la massima libertà.

E quanto influisce il lavoro dell’editore – le sue “esigenze d’affari” – sul lavoro di un autore?

Tanto. Stai parlando con uno che ha iniziato con Marsilio, l’ultimo libro è uscito per Fandango. Nel mezzo sono passate tante altre case editrici: No reply, Effige, Manni per “Maschio adulto solitario”, Sironi… Questo non ti permette una buona distribuzione e quindi non puoi capire mai qual’è il tuo tasso tecnico.

Non credi che ci sia anche il problema che il mercato editoriale ormai condiziona in maniera quasi spudorata quella che dovrebbe essere la “critica” al punto che non si riesce più a distinguere un romanzo “bello” da un romanzo “popolare”?

Oggi ci sono due tipi di critica: quella militante – per cui se non aderisci alla sua linea di condotta non vai bene – e quella “ipertecnica”, che ti guarda l’aggettivo. Poi nel mezzo ci sono le recensioni scritte dall’oggi al domani, quelle che vanno sulla grande stampa, che non concedono i tempi per metabolizzare ed esprimere un giudizio accurato sul libro. Quelle recensioni sono per lo più una vetrina. Se pensi che poi si comprano anche le posizioni in classifica…

Manca forse quello che un tempo era definito “sistema culturale”: un gruppo più o meno ristretto di intellettuali che sapevano distinguere il buono dal commerciabile… e spesso ci azzeccavano?

Considera che negli anni Ottanta pubblicavano in pochissimi proprio perché c’era quel tipo di sistema. Questo da un certo punto di vista era negativo perché magari c’erano dei talenti che si perdevano, d’altra parte però chi riusciva a bucare questo muro di gomma era gente che aveva sbattuto la testa per anni e finalmente conquistava l’attenzione che meritava. Oggi tutti pubblicano ed è chiaro che critici non possano leggere tutto quello che gli viene segnalato. E spesso si riducono a leggere libri delle case editrici “di prima fascia”.

Cosa consiglieresti a un giovane che ha la velleità o l’ambizione di fare lo scrittore?

L’unico consiglio che potrebbe non essere sprecato è di provare a utilizzare il tempo come una ricchezza. Ci sono autori che appena scrivono un libro lo vogliono pubblicare subito. Io alle spalle del mio primo libro ho altri cinque romanzi che sono andati al macero. Se tu ci credi lo fai per te stesso: devi passare dalle forche caudine del tempo e considerare il tempo come un itinerario di crescita pieno di prove e contro-prove. Alla luce di questa consapevolezza l’ansia di pubblicare diventa un disvalore.