Inquinamento… “di classe”

di Salvatore Romeo (’84)

“Quando muoio non voglio niente del paradiso:
io i lavori del paradiso non li saprei fare.
Prego che il diavolo mi venga a prendere
e mi metta nelle fornaci ardenti dell’inferno.”

(B. Springsteen, Youngstown)

C’è un dato contenuto nella perizia medico-epidemiologica recentemente depositata presso il Tribunale di Taranto nel quadro del processo contro l’ILVA cui, tranne rare eccezioni (si segnala questo bel pezzo di Francesco Casula), non è stato dato quasi per nulla risalto. I curatori del documento – dott. Forastiere, prof. Biggeri e prof.ssa Triassi – così scrivono:

“La città di Taranto (e i due comuni limitrofi Statte e Massafra) presentano un quadro sociale variegato con presenza contemporanea di aree ad elevata emarginazione e povertà ed aree abbienti. A questa stratificazione sociale si associano differenze importanti di salute (e di probabilità di morte). Le classi sociali più basse hanno tassi di mortalità e di ricorso al ricovero ospedaliero più alte di circa il 20% rispetto alle classi sociali più abbienti [corsivo mio].”

Il dato diventa persino macroscopico se si considerano le malattie all’apparato respiratorio: in questo caso la mortalità nelle fasce più povere è del 78% superiore rispetto a quella riscontrabile presso le classi superiori. Naturalmente ad essere più esposti a rischio sono gli abitanti dei quartieri Tamburi e Paolo VI, presso i quali si concentra buona parte della popolazione più povera della città. “Per questi quartieri, dopo aver aggiustato nella analisi statistica per i differenziali sociali, i livelli complessivi di mortalità e di ricorso al ricovero ospedaliero sono più elevati rispetto agli altri quartieri di Taranto del 27-64% per Paolo VI e 10-46% per Tamburi.” Ma i soggetti che subiscono più di tutti le conseguenze dell’inquinamento di origine industriale sono i lavoratori dello stabilimento. Rilevano i periti che

“esiste una maggiore frequenza di denunce di malattie respiratorie non da asbesto [amianto, ndr] tra i lavoratori dell’ILVA rispetto al dato nazionale, un segnale di contaminazione ambientale in ambiente di lavoro, certamente compatibile con la particolare tipologia lavorativa.
la consistente denuncia di tumori non da asbesto tra i lavoratori, rispetto al dato nazionale, può essere considerato in relazione all’esposizione a cancerogeni ambientali diversi dall’asbesto (es. IPA e benzene);
la consistente denuncia delle malattie da asbesto tra i lavoratori rispetto al dato nazionale, peraltro riconosciuta dall’INAIL nella maggior parte dei casi, costituisce un segnale di esposizione dei lavoratori all’asbesto”

Alla luce di queste considerazioni emerge chiaro un fatto: l’inquinamento di origine industriale è profondamente intrecciato al conflitto sociale o, più precisamente, a quella che un tempo si sarebbe definita “lotta di classe”. E, ancora una volta, a condurre l’offensiva è la parte padronale – che, per dirla con Ascanio Celestini, “sta vincendo alla grande”. In quest’ultima accezione l’inquinamento – e il conseguente avvelenamento – altro non è che un ulteriore aspetto dello sfruttamento che caratterizza i rapporti di produzione capitalistici. Certo, ce lo avevano già raccontato i “classici” del pensiero socialista, come ci ricorda il prof. Giorgio Nebbia. Così Friederich Engels descrive la situazione della Manchester del 1845:

“In capo al ponte stanno grandi concerie, più sopra ancora tintorie, mulini per polverizzare ossa, e gasometri, i cui canali di scolo e rifiuti si riversano tutti nell’Irk [il fiume della città, ndr], che raccoglie inoltre anche il contenuto delle attigue fognature e latrine. È facile immaginare, dunque, di quale natura siano i depositi che il fiume lascia dietro di sé. A piè del ponte si vedono le macerie, l’immondizia, il sudiciume e la rovina dei cortili che danno sulla ripida riva sinistra; una casa segue immediatamente l’altra, e, per l’inclinazione della riva se ne vede di ciascuna un pezzo: tutte nere di fumo, sgretolate, vecchie, con le intelaiature e i vetri delle finestre in pezzi. Lo sfondo è formato da vecchi stabilimenti industriali simili a caserme.”

Ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (l’opera da cui la citazione è tratta), la miserabile condizione della popolazione operaia di una delle città più industrializzate dell’epoca (ritratta nella foto sopra) e la fatiscenza dell’ambiente in cui vive viene ricondotta a un unico principio: la ricerca del profitto. E’ un rapporto di causa-effetto quasi meccanico, lo stesso che di lì a qualche anno il grande amico di Engels, Karl Marx, avrebbe descritto ne “Il Capitale”. Quest’ultimo si fonda su un’astrazione: le cose (incluso il lavoro) non sono considerate nella loro concretezza (valore d’uso), bensì per la funzione che esercitano nel processo di creazione del valore. Un grammo di eroina o una medicina per guarire da una malattia grave hanno la stessa importanza agli occhi di chi deve realizzare profitto se il loro valore di mercato (o, per dirla con Marx, valore di scambio) si equivale. Da questa astrazione derivano tutta una serie di conseguenze deleterie: la fatica dell’uomo, la stabilità sociale e le leggi della natura possono essere tranquillamente e ripetutamente violate se ciò non comporta un danno per la produzione. Ma ciò che risalta dall’analisi marxiana è il carattere oggettivo di queste valutazioni: il capitalista non è un uomo malvagio (il tipico grassone con sigaro e cilindro che sghignazza al pensiero della sorte meschina dei suoi operai), ma a sua volta una funzione del meccanismo del Capitale: egli applica le regole che governano la società capitalista, sia sul versante del lavoro, sia su quello dei rapporti con la società e la natura. Se non lo facesse smetterebbe di essere un capitalista.

Quanto si è detto dovrebbe suonare come un’ovvietà, eppure a Taranto non è così. Ciò che domina le valutazioni sulla questione ambientale è un iper-soggettivismo che ha quanto meno due ricadute auto-contraddittorie.

a) La colpa dell’inquinamento è di persone e realtà industriali precise. Questo spiega l’intensità con cui buona parte dell’ambientalismo jonico ha preso a seguire l’azione penale recentemente avviata contro l’ILVA: in un processo evidentemente dietro la sbarra degli imputati non può sedere un intero modo di produzione, bensì soggetti ben definiti. Ne derivano però ingenuità e veri e propri errori: credere che semplicemente sostituendo un tipo di produzione con un’altra si risolva il problema dell’inquinamento è illusorio. Ogni attività produttiva moderna porta con sé un impatto ambientale significativo, anche quelle che apparentemente sembrano adattarsi meglio alle caratteristiche del territorio: si vedano le conseguenze devastanti del turismo o della pesca sull’habitat terrestre e marino nelle aree dove queste attività vengono praticate con logiche industriali (le sole che consentono di assorbire migliaia di addetti).
b) Per imporre un limite alle attività inquinanti basta un’azione politica efficace. Ne deriva che, sovente, i rappresentanti istituzionali e politici nazionali e locali vengano considerati corresponsabili dei vari disastri, quanto meno per le omissioni di cui si sarebbero macchiati; ne consegue che basti cambiare questi ultimi per ottenere risultati più efficaci. Nessuno vuol negare che in Italia una decisa politica ambientale forse non sia stata mai portata avanti, tuttavia attenzione agli eccessi di questa valutazione. Chiunque assumesse incarichi politici rilevanti presto o tardi sarebbe costretto a constatare che le esigenze di un’azienda (tanto più se una grande azienda) spesso condizionano pesantemente il contesto in cui essa opera: se il sistema di produzione capitalista è indissociabile dalla concorrenza (fra privati e fra paesi), imporre a un importante sito produttivo standard di tutela dell’ambiente rigorosi o addirittura ordinarne la chiusura può avere riflessi catastrofici sull’azienda, nel primo caso, e sul paese, nel secondo. Ne deriverebbe una situazione in cui al fronte ambientalista si contrapporrebbe quello delle forze produttive (lavoratori e capitalisti), con esiti imprevedibili.

Proviamo ad andare oltre l’ambientalismo “soggettivista” e a guardare a questa fondamentale questione nell’ottica delle classi che per prime subiscono questa ulteriore forma di sfruttamento. Spingendoci in questa direzione incontriamo la feroce critica portata al capitalismo sin dalle sue origini, quella degli Engels e dei Marx. Questa critica insisteva sul carattere intrinsecamente disordinato del sistema: la stessa realizzazione del profitto va incontro a tutta una serie di incognite che sfuggono all’analisi dei capitalisti, divenendo pertanto incerta. La stessa crisi in cui ci stiamo dibattendo è un tipico esempio di una più generale “tendenza alla crisi” del sistema: per anni il problema dell’arretramento progressivo della quota dei salari e degli stipendi sul reddito – dinamica caratteristica di tutti i paesi industrializzati – è stato momentaneamente tamponato con l’espansione del credito privato. Questo ha consentito ai lavoratori dipendenti di diverse parti del mondo di conservare un tenore di vita da ceto medio e alle imprese di continuare a realizzare investimenti e profitti. Sono stati inventati strumenti finanziari ad hoc per dilatare continuamente l’offerta di denaro a famiglie e aziende, ma presto o tardi la bolla doveva scoppiare – e così è stato. Quale capitalista si è posto il problema di cosa ne sarebbe stato della propria attività e dell’intero sistema a quel punto? E si badi, non si tratta di un “errore”, bensì di una conseguenza necessaria del funzionamento del sistema, il quale fa dell’ottica privata il suo perno
Dato per presupposto tutto ciò, la questione ambientale la si può affrontare – con qualche speranza di risolverla – solo riducendo drasticamente l’imprevedibilità del sistema. In che modo? Se il sistema si fonda sugli interessi privati, occorre (ri)costruire centri di progettualità e azione pubblica. Veniamo così a un altro tema molto caro al pensiero marxiano: quello del “piano”. La parola – richiamando la problematica esperienza sovietica – può far paura a molti, ma non si può fare a meno di ricordare che, fino agli anni ’70, anche i paesi a capitalismo avanzato furono affascinati da questa idea. Una testimonianza abbastanza eloquente è quella citata dal prof. Emiliano Brancaccio a proposito dell’economista premio Nobel, Wassily Leontief. Questi nel 1975 fu tra i promotori di un Comitato per la Pianificazione Economica negli Stati Uniti. Leontief richiamò allora – forse tornando con la memoria alle sue esperienze giovanili di collaboratore del governo sovietico nella stesura del primo piano quinquennale – l’esigenza per il paese di dotarsi di “elementi di piano” al fine di far fronte alla crisi economica che aveva duramente colpito il paese (sono gli anni che seguono immediatamente lo shock petrolifero). La proposta – e il dibattito che ne derivò – conquistò le prime pagine del New York Times. Si dà il caso che lo stesso Leontieff, come ci ricorda il già citato Giorgio Nebbia, è stato fra i primi a concepire l’idea di un “bilancio ecologico”, sfruttando proprio l’innovazione teorica che gli valse il Nobel: la “tavola intersettoriale” – che proprio le autorità preposte alla pianificazione (o “programmazione”, come era preferibile dire in Occidente) conoscevano (e forse ancora conoscono) molto bene. La tavola intersettoriale consente di avere una visione precisa dell’interdipendenza fra i diversi settori di un determinato sistema economico: prendendo a riferimento, per esempio, la siderurgia si possono individuare tutti i beni che servono a un determinato volume di produzione di acciaio e tutte le direzioni che le merci realizzate prendono, nel senso dei settori in cui vengono impiegate. La stessa cosa, rilevò Leontieff, si può fare con la materia: quanti e quali agenti inquinanti si generano per rifornire un determinato processo produttivo delle cose di cui necessita e quanti e quali ne emette a sua volta quest’ultimo? In questo modo non solo si può avere una visione complessiva dell’impatto ambientale di un certo sistema produttivo, ma si possono altresì prendere decisioni complesse e articolate su quali filiere produttive promuovere. Se si affianca poi al bilancio ecologico una tavola intersettoriale di tipo tradizionale, tale decisione può essere completata da una valutazione delle sue conseguenze economiche e sociali. Il punto ideale di approdo sarebbe quella politica di investimento che consentisse di minimizzare le emissioni e massimizzare i benefici economici e sociali.

La realizzabilità di un’impresa così ambiziosa necessita tuttavia di alcuni presupposti fondamentali: una radicale revisione dell’impostazione su cui si basano le politiche economiche nazionali e comunitarie – nel senso di un forte recupero dell’intervento pubblico – e una critica spietata di quella che è stata forse la più grave illusione di questi ultimi anni: il libero mercato. Risulta infatti chiaro che, in presenza di una concorrenza praticamente illimitata (che non fa sconti alle condizioni economiche e sociali e alla salute dei lavoratori e dei cittadini), il conseguimento di standard ambientali e sociali accettabili finisce col diventare un’utopia. Occorre dunque non solo limitare il potere del capitale su uomini e cose attraverso prescrizioni e istituzioni ad hoc, ma è quanto mai necessario intervenire drasticamente sui flussi internazionali di merci, perché il dumping salariale e ambientale venga messo alle strette.
Ma perché questo progetto possa affermarsi è assolutamente indispensabile diffondere nella società un nuovo approccio alla questione ambientale: questa non può cadere nelle banalizzazioni dell’“effetto NIMBY” (“non nel mio giardino”) – che rappresenta, a ben vedere, la versione ambientalista della frammentazione e del conflitto fra lavoratori –, ma deve affrontare le cause strutturali del disastro ambientale. Che sono le stesse che oggi minano la dignità del lavoro e la tenuta dell’intera società.

4 Comments

  1. Anonymous March 6, 2012 12:13 pm 

    perfetto, complimenti! Il primo passaggio è fare uscire questa produzione dal libero mercato. Lavoriamoci insieme.

    Luca Occhionero

  2. Anonymous March 9, 2012 8:38 am 

    Le contraddizioni del sistema non dovrebbero spaventare chi si è dato il compito di salvaguardare la salute e la vita di lavoratori e cittadini. Il problema va risolto dove si genera, l’interno del mondo delle produzioni: per Marx “l’operaio vive abbracciato al suo carnefice”. La legislazione (Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970)non ha risolto il problema perché quel soggetto politico (la classe operaia) allora pur facendosene carico non c’è riuscita. Eppure essa sola ha il potere di risolvere la questione affrontando direttamente la contraddizione tra livelli occupazionali (non solo industriale e riconversione produttiva nel segno di una politica ecologica della classe operaia. Essa attraverso i suoi rappresentanti politici e sindacali non agisce in queste contraddizioni. La posta in gioco è globale, la sopravvivenza del genere umano, la risposta deve essere generale. Occorre utilizzare la reazione naturale della società civile, nel suo stato attuale di consapevolezza dei problemi, per andare oltre. E’ vero ” La realizzabilità di un’impresa così ambiziosa necessita tuttavia di alcuni presupposti fondamentali: una radicale revisione dell’impostazione su cui si basano le politiche economiche nazionali e comunitarie – nel senso di un forte recupero dell’intervento pubblico – e una critica spietata di quella che è stata forse la più grave illusione di questi ultimi anni: il libero mercato.”

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