Non chiamatele “morti bianche”. Lavoro e morte all’ILVA di Taranto

di Greta Marraffa

Si è concluso con la condanna ad un anno e quattro mesi di reclusione a carico di un dirigente e due capireparto Ilva il processo per la morte dell’operaio Vito Antonio Rafanelli, schiacciato da un enorme tubo il 17 Agosto 2006. Per tutti l’accusa è di omicidio colposo; inoltre dovranno versare una provvisionale di 11.000 euro ai familiari dell’operaio deceduto e risarcirli in sede legale.

Sono oltre 1110 i lavoratori coinvolti in incidenti mortali sul proprio posto di lavoro solo nel 2011,di cui il 15% erano  lavoratori in nero. Le definiscono banalmente ed ingiustamente  ”morti bianche”, quasi  a voler disattendere la pretesa di ricercare un colpevole, relegando tutto ad una semplice e pura fatalità.

Ma su quel rullo, quel giorno soleggiato, Vito lavorava.  Ad altissime temperature era costretto a stare, sino a quando quel tubo, staccandosi, lo schiacciò completamente. Nella grande fabbrica che offre il pane per vivere, il  rischio da correre ogni giorno è elevato. I timori e le paure sotto quelle goffe tute blu  traspaiono con nitidezza sui volti stanchi e sofferenti.

Incontro il signor Cosimo Semeraro, presidente dell’associazione tarantina  “12 Giugno”, costituita in memoria dei “caduti” sul posto di lavoro. Ex operaio Italsider,  lavorava come elettricista.  Dal 1995 lotta senza fine. Una battaglia a suon di avvocati, carte bollate, certificati medici e sentenze, rivendicando con estrema ostinazione un risarcimento economico per la sua prolungata esposizione all’amianto sul posto di lavoro.  Le vicissitudini di tale vertenza contro L’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) si inserisce all’interno di un contesto molto più ampio: l’associazione racchiude i racconti e le storie  degli operai della grande fabbrica, caduti ed “assassinati” sul proprio posto di lavoro.

“Sono tantissime le famiglie che chiedono giustizia”- così Cosimo, con sguardo profondo e rammaricato, mi confida: ”Le loro peggiori paure derivano dalla lentezza dei tempi della giustizia e soprattutto dall’impossibilità di poter sostenere gravose  spese processuali. Sono completamente lasciati soli, a piangere doppiamente il proprio defunto”.

Accanto a lui Giancarlo Girardi, componente dell’associazione “Libera “contro le mafie, nonché ex operaio Ilva, con la testa fra le mani, mi sussurra:” Abbiamo dovuto aspettare i tempi della magistratura, dei procuratori, tempi lunghi e mortificanti. I lavoratori vengono costantemente maltrattati, denigrati e spesso mobizzati, come avvenne all’interno della “palazzina Laf”. L’assenza delle parti sociali,delle istituzioni e della comunità civile contribuiscono ad incrementare maggiormente questo senso di solitudine ed amarezza, perché gli operai sono soli, perché invisibili. Anche le loro morte è di serie B.”

I media e la stampa costantemente dedicano piccoli spazi e trafiletti a tale questione, lasciando senza volto e senza identità uomini e donne vittime di un sistema sbagliato, di un contesto sociale ingrato, indifferente a tutelare i costi della salute e della vita umana.

Semeraro osserva con ammirazione, quello che è accaduto all’interno della Corte d’Assise di Torino, nel processo “Thyssen Krupp”: l’incendio sulla linea 5 dell’acciaieria di corso Regina Margherita, una strage in cui persero la vita sette operai . La sentenza di condanna per quella tragedia ha fatto giurisprudenza. Il pubblico ministero Raffaele Guariniello, “ha battuto i tempi della giurisprudenza”. L’amministratore delegato della “Thyssen Krupp” Italia è stato condannato a sedici anni e sei mesi di reclusione per OMICIDIO VOLONTARIO con dolo eventuale, assieme al direttore dello stabilimento torinese e al responsabile sicurezza ,imputati di omicidio colposo con colpa cosciente . È la prima volta che un Tribunale riconosce un reato così grave per “incidente” sul lavoro.

“Il nemico è troppo forte, dispone di una cerchia ampia di avvocati competenti; la nostra associaizione spesso rischia di collidersi contro un iceberg”- afferma  Semeraro – “ma noi non molliamo e continuiamo a portare avanti campagne di sensibilizzazione, richiedendo a gran voce alle forze governative nazionali la necessità di costituire una commissione d’inchiesta sulle morti del lavoro, promuovendo maggiori investimenti nel settore della sicurezza”.

1000 morti all’anno è una guerra. Una guerra combattuta giorno per giorno da gente costretta a lavorare per pochi soldi, senza difese, senza tutele. Lavorare più di dieci ore al giorno, per “tirare”, per andare avanti, per mantenere gli studi dei propri figli, per pagare un mutuo, per progettare un futuro.  Gli eroi del nostro tempo: operai, interinali, somministrati, braccianti, contadini, lavoratori a nero, lavoratori a progetto , a cui  non vengono dedicati funerali di stato ma solo le lacrime amare dei compagni, dei colleghi e della propria famiglia.

Riporto una parte del racconto  narrato da Patrizia, compagna di Antonino Mingolla, operaio dell’Ilva di Taranto morto il 18 Aprile 2006,in un altro incidente sul lavoro. Nelle sue parole tenta di ridar voce al suo compagno che non c’è più:

“Dovevamo revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole inutilizzabili; condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno; strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità funambolica. Difficile raccontare questo stato di cose a chi non conosceva quell’ambiente. E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai conoscenti ,non lo raccontavo ai parenti. Non lo raccontavo agli storici amici,insieme ai quali avevo condiviso battaglie sociali: col tempo le nostre vite erano cambiate, dal punto di vista del lavoro,però la mia vita era cambiata più delle loro.”

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