di Gaetano De Monte
Celebrare il 25 Aprile oggi significa comprendere, in primo luogo, che la nostra democrazia e la Costituzione sono figlie delle donne e degli uomini che hanno combattuto contro l’occupazione nazista, e contro il fascismo che la appoggiava. Che quella Costituzione entrata in vigore il 1° Gennaio 1948 continua a reggersi su dei fatti storici, la guerra di liberazione e la resistenza antifascista, che la legittimano e che sostengono dunque l’intero ordinamento. E che pertanto, se viene meno il riconoscimento della Resistenza come valore fondante crolla l’intero castello di legittimità.
Negli ultimi venti anni invece si è assistito allo sdoganamento storico e morale del neofascismo italiano. Attraverso tesi come quella degli “opposti estremismi”, finalizzate alla equiparazione, cioè a mettere sullo stesso piano partigiani e ragazzi di Salò. Ma la Resistenza è di tutti? Certo. Tranne di chi la rinnega, appunto. E’ un patrimonio che appartiene a tutti coloro che rifiutano e rinnegano ogni forma di oppressione, di fascismo e di discriminazione.
“Senza Gianni e Renata è più bella la giornata”, ( ndr. Gianni Alemanno e Renata Polverini, assenti alle celebrazioni), recitava un cartello al centro del corteo organizzato il 25 Aprile dall’Anpi di Roma, e da tutte le forze democratiche e antifasciste, una manifestazione che si è snodata dal Colosseo a Porta San Paolo, un percorso breve, ma significativo. Scelto non a caso, perché fu lì, tra la Piramide Cestia e la stazione Ostiense, che avvenne infatti una delle battaglie-simbolo della Resistenza romana durante la Seconda Guerra Mondiale: quella contro i nazisti del settembre 1943.
A Roma, il 25 aprile, sessantasette anni dopo la fine di quel regime che tentò – ed in larga parte ci riuscì – a pianificare e controllare ogni aspetto della vita delle persone, è una data che va oltre il ricordo, la festa e le celebrazioni. E’ un’occasione per ricordare le aggressioni neofasciste che negli ultimi anni hanno colpito alcuni militanti del PD nel quartiere Montesacro, i ragazzi del teatro occupato di Ostia, ma non solo; e per citare l’ultimo episodio di becero squadrismo, i giovani aggrediti al liceo Righi qualche giorno fa. Si sprecano in questa giornata, invece, da parte delle istituzioni, le frasi fatte sul valore della memoria, e sull’obbligo morale di fare i conti con un periodo buio della storia del nostro Paese, come è stato quello fascista. A volte rischiando di trasformare una giornata dal così alto valore e significato simbolico in un cerimoniale vuoto. Non sarebbe invece magari più opportuno ogni giorno costruire la memoria di una nuova resistenza alla tentazione dell’indifferenza, all’omologazione del pensiero, all’arroganza al potere, all’intolleranza che ci circonda? Soprattutto nell’ Europa di oggi, che, costantemente mette in discussione il modello sociale e politico nato dalla sconfitta del nazi–fascismo.
Un ruolo questo che spetta soprattutto alle scuole ed al mondo della formazione: quello di creare cioè un effettivo senso di cittadinanza, una cultura della democrazia, basata anche sulla conoscenza reale, non deformata della nostra storia più recente. Mettendo in fila i fatti, raccontandoli per come essi si sono svolti. Scardinando anche tutto l’impianto mistificatorio di un certo revisionismo. Se c’è un valore supremo che più di ogni altro appartiene alla resistenza, come ha scritto Tina Anselmi – una di quelle madri della Patria che non solo partecipò alla costruzione della nostra democrazia, ma che negli anni a venire fu anche chiamata a difenderla dagli attacchi stragisti e golpisti – è :
“La partecipazione. Battersi perché questa libertà permanesse nel tempo, per le generazioni a venire, a futura memoria. Ognuno di noi scopriva che aveva qualcosa da dare e da portare lungo il cammino della liberazione. Perché non si dovesse mai tornare indietro verso lo scempio della vita umana. Volevamo la libertà per poterla vivere fino in fondo, per consolidarla, per consegnarla come garanzia ai giovani. Ai ragazzi dobbiamo raccontare la storia della Resistenza. E partiamo dalle lettere dei condannati a morte. Io dico sempre che davanti alla morte c’è la verità e la verità è che noi facevamo la guerra per ottenere la pace”.
Si cita Tina Anselmi non soltanto per l’importanza che ha rivestito nella storia italiana, ma anche e soprattutto perché si vuole qui ricordare che quella nuova Costituzione fondata sui valori espressi dalla Resistenza fu ottenuta grazie anche al contributo di tante donne, che da lì in poi entreranno in pieno nella vita civile e sociale del Paese, ottenendo conquiste importanti come l’apertura a tutte le carriere lavorative o la parità salariale, sino ad arrivare alla legificazione del nuovo diritto di famiglia, nel 1975. Il ruolo delle donne, nella stessa Resistenza, è stato fondamentale, una presenza complessa, fatta di molteplici compiti e forme di resistenza non armata, ma anche di partecipazione diretta e in prima persona alla lotta armata.
Se c’è una cosa che colpisce leggendo i racconti dei protagonisti della guerra di liberazione è il loro sentirsi sostenuti, nonostante i pericoli, la fame, la guerra, il confino, le fucilazioni, dalla fiducia che il progetto di una società diversa, migliore, si potesse realmente attuare. La stessa Tina Anselmi, nel libro “Storie di una passione politica”, scrive “non ho mai pensato che noi ragazzi e ragazze che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali; ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità; in questo trovammo la forza per opporci all’orrore.
I racconti di quelle donne e quegli uomini che hanno restituito la libertà all’Italia, ci consegnano la parte migliore della nostra storia più recente, ma ci insegnano, soprattutto, che il futuro e la libertà di immaginarlo può appartenerci, insieme all’ingenua certezza che tutto può essere possibile. Basta lottare per volerlo.