Il Calcio: una religione, molti Messia

di Salvatore Romeo (’85)

Cosa non si farebbe per seguire e difendere la propria religione! E’ impossibile ricordare a memoria d’uomo il numero di guerre, scontri o semplicemente amicizie, naufragate nel corso dei secoli a causa degli scontri religiosi. Quando George Bernarnd Shaw affermò che “c’è una sola religione, benché ne esistano un centinaio di versioni”, non poteva lontanamente immaginare che una di queste “versioni” fosse niente meno che il calcio. Si, il calcio, la religione con più adepti al Mondo.

Una religione, molti Messia

Numerosi sono i punti di contatto tra le diverse religioni ed il calcio: possono tutte riconoscersi un ampio numero di “fedeli”; hanno luoghi di culto, non strettamente domenicali; tutte lasciano un sentimento di insofferenza quando la vita è avara di successi. Ma a differenza di Buddismo, Islam o Cristianesimo, religioni prettamente Monoteiste, il calcio ha un’infinità di Messia: ogni squadra ha il suo, ma un ristretto numero sono riconosciuti universalmente come “Dei del calcio”.

E quella del “Messia” è la metafora migliore, se ci riferiamo al calcio moderno specialmente in Italia: in prima analisi, ad un livello più “alto”, le vicissitudini di una squadra di calcio sono vissute con un ardore ed un’indignazione difficilmente individuabili nella tematica “quotidiane”. E dato che Taranto, nel suo piccolo è anticamera e specchio della realtà italiana, la nostra città attende con rabbia ed impazienza il suo “Salvatore”, che possa traghettarla verso il paradiso della palla di cuoio. Certo, ci sarebbe da sistemare la “faccenda” della depressione economica e della stagnazione occupazionale, nonché della situazione ambientale, ma i tarentini in questi giorni d’arsura estiva, sembrano non prestare ascolto che alle (dis)avventure calcistiche.

La “discesa del Salvatore”

Tre anni fa, in concomitanza con l’insediamento della nuova proprietà “targata” D’Addario, il purgatorio, in cui il calcio tarantino militava da circa venti anni, sembrava fosse giunto ad una fine. Folle di fedeli acclamava a gran voce l’arrivo del Messia (o del re Mida, come era stato soprannominato) locale, che tra proclami e promesse azzardate, ascoltava le preghiere e elargiva benedizioni. Come è andata a finire è storia nota ormai (ne abbiamo parlato nell’articolo “D’Addario: una dinasty in default” http://www.siderlandia.it/index.php/daddario ). Ora, trascurando gli insegnamenti che la Storia con la sua benevolenza ci elargisce, il perfido meccanismo della figura salvifica, tanto cara al berlusconismo, potrebbe tornare ad affascinare i cuori dei tifosi locali. Enorme è (a detta loro) la mole “di impegno e sudore” che i dirigenti della quasi defunta Taranto s.r.l. stanno profondendo;  i risultati però sono (ad ora) abbastanza scarsi. Fatto salvo per una società italo-spagnola, pronta a suo dire a sacrificare per la salvezza del Taranto seicentomila euro [1] , nessun’altra società (locale e non) sarebbe pronta a sacrificarsi (almeno fino alla data di stesura di questo articolo). Ma ci può essere una soluzione?

Il Messia che viene dal legno

Così credo sia considerato Giampaolo Pozzo, proprietario dell’ “Udinese Calcio”, una delle realtà più belle degli ultimi tre lustri del panorama calcistico nazionale, dai suoi concittadini. Nella gestione della “sua” squadra, per i dirigenti dell’Udinese e la famiglia Pozzo, la parola d’ordine sembrerebbe essere una: programmazione. Si, programmazione perché il successo dell’Udinese fonda le sue basi molti anni fa, quando per questa “provinciale”  il traguardo della serie A era da conquistare tutti gli anni. Dal 1995 in poi l’Udinese non è mai scesa in serie B, anzi ha ottenuto dei traguardi ragguardevoli, conquistati in luogo delle squadre più blasonate. Ed il tutto è condito da un’invidiabile situazione finanziaria del club, raggiunta con anni di politiche di compra-vendita dei giocatori dedite alla “plusvalenza”. Ulteriore fiore all’occhiello della società bianconera, è la gestione del settore giovanile, all’avanguardia in Italia: le strutture di allenamento ed i campi da gioco per i più “piccoli” sono di “pari dignità” rispetto a quelli della prima squadra. Se a questo si aggiunge la forte attitudine all’integrazione tra i giocatori di diverse nazionalità, quasi una necessità per una squadra che scova talenti in tutti i Continenti, si può intuire il perché del successo dell’Udinese: nulla è lasciato all’improvvisazione.

Udinese, possibile modello di riferimento?

I problemi sono molteplici: ad oggi nessun gruppo privato, famiglia o benefattore ha le competenze, le risorse e la lungimiranza della famiglia Pozzo (e di tutte le altre “famiglie” che hanno successo nel calcio). Ma perché l’approccio non potrebbe essere differente? Quando si parla di una società sportiva, di qualsiasi sport, subito si tende a identificarla con il nome del proprietario o dello sponsor; sembra paradossale ma il concetto di appartenenza ad una città/comunità, pur denominando una squadra, viene immediatamente scavalcato dalle logica che “la squadra è dichi mette i soldi”. Un approccio dunque del tutto “personalizzate”, in antitesi al concetto di “unione” insito nello sport.   Perché non si prova, in reale contrasto alla dipendenza di una squadra/comunità nei confronti di un unico soggetto economico, a rendere la squadra della propria città davvero “pubblica” ? Molti di voi, a seguito di tale affermazione, storceranno il naso. Troppo difficile (ne sono consapevole) immaginare una società senza un padre/padrone che rimpingui le casse ad ogni bisogno. Qui proverò ad immaginare una possibile alternativa all’attuale “status quo”.

Una squadra che “sia della città”

Il Taranto non dovrebbe essere salvato. Aggiustereste mai una casa che sta per crollare, nel tentativo di renderla stabile per qualche mese o la buttereste a terra ricostruendola da capo? Certo quest’ultima ipotesi prevede che le energie (ma non le risorse) da spendere, siano incommensurabilmente più elevate rispetto al primo caso. M almeno si riuscirebbe a garantire delle fondamenta solide. Ed il progetto potrebbe essere questo. Si potrebbe ripartire dalle categorie inferiori (serie D), pianificando e programmando un futuro alla squadra, che coinvolga tutto il territorio. A far da garante a questo progetto, dovrebbe essere il comune, che non avrebbe però un ruolo di pura “assistenza”: si potrebbe pensare di rendere pubbliche quelle società calcistiche che lo vorranno, assumendo custodi, allenatori e preparatori atletici professionali che curino i giovani talenti, di cui sono colme le strade del borgo e delle periferie. Ciò garantirebbe, oltre che posti di lavoro in più, anche la possibilità di creare un’alternativa valida ai pomeriggi “randagi” cui sono “costretti” molti ragazzi (pomeriggi di frustrazione e pericoli che talvolta le strade tarantine posso arrecare). Ma il comune cosa ci guadagna? Nulla sembrerebbe, ma solo ad un’analisi superficiale. Perché come possessore della squadra principale “il Taranto”, permetterebbe di lanciare in prima squadra i migliori talenti selezionati nella “cantera” locale. Il tutto con pochissime spese (i calciatori più piccoli pagherebbero una retta mensile di pochi euro proporzionale al reddito) e con la possibilità di effettuare plusvalenze da reinvestire nella squadra, provenienti dalla vendita dei calciatori e dallo sfruttamento dello stadio, di proprietà dello stesso comune.

Quella appena descritta, ha l’intento di essere una provocazione/possibilità. Per troppo tempo noi tifosi tarantini siamo stati sedotti ed abbandonati dai diversi Messia che si sono approfittati dei nostri sogni e della nostra ingenuità. Se qualcosa dovrà cambiare, dovrà venire da noi. Proviamo a fare di Taranto e del Taranto un nuovo modello di riferimento.

[1] http://www.blunote.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=6071:taranto-dalla-platinum-600-mila-euro