Stritolati dal lavoro – recensione di “18.000 giorni – Il pitone”

di Salvatore Romeo (’85)

Si muove silente, all’apparenza inoperoso, non tradisce sussulti. Si avvicina alla sua preda con fare sinuoso, l’avvolge, e, raggiunta la stessa dimensione, la stritola – incurante della sua specie.
Il pitone, pur non essendo un serpente velenoso, è un predatore.
E’ affidato a questo rettile il compito di “trait d’union” tra la realtà italiana (e non solo) e la vicessitudine di un uomo all’apice della sua (poco fulgida) carriera.

“18000 giorni: il pitone”. Così si intitola l’opera teatrale portata in scena da Giuseppe Battiston e Gian Maria Testa: attore dall’aspetto fanciullesco e dal forte impatto scenico il primo; cantastorie malinconico e raffinato, apprezzato maggiormente oltr’Alpe, il secondo.

Dall’ unione di due personaggi solo superficialmente agli antipodi viene narrata la storia di un impiegato cinquantenne, (“uno tutto casa e lavoro”, si direbbe entro le calde mura domestiche della borghesia italiana) che, a seguito dell’abbandono – causa licenziamento – da parte di moglie e figlio, trascorre le sue giornate in compagnia del suo fedele angelo custode, la cui immagine velata agli occhi del pubblico emerge solo per accordare la sua solitudine a quella del protagonista.

Nel viaggio a ritroso nella sua memoria, l’impiegato ricorda i momenti salienti della sua carriera aziendale, la sua “seconda famiglia”, vissuta alternando al servilismo impiegatizio l’aspirazione d’essere altrui pitone; il punto più basso (ma lui ottusamente lo crederà apice) lo raggiunge quando a causa d’un importante affare londinese, è costretto a saltare il funerale del defunto padre, meravigliandosi della fredda accoglienza dei famigliari al suo ritorno.

“…in fondo lo faccio per la famiglia, lo sai, la promozione. E’ così che vanno queste cose per noi quadri, lo sai…”.

Appagato dalla sua riconoscibilità tra i superiori, attribuisce l’affiancamento del “pitone” come il riconoscimento delle sue capacità “uniche e ineguagliabili” tali, a suo giudizio, da garantirgli una sicura promozione. Dietro la figura del viscido rettile, in realtà, si cela quella di uno stagista ventenne alla sua prima esperienza lavorativa, diviso dalla voglia imparare e il timore d’una realtà più grande di lui. Il suo unico compito, eseguito con dovizia ed abnegazione, era di stare il più vicino a suo referente di studiarne ogni mossa, ogni segreto.
L’impiegato neanche lontanamente scorgeva il pericolo di quell’animale buffo e solitario, sempre concentrato nei suoi conti e così pragmatico nel prendere appunti e spunti della vita dei grandi. Non lo temeva, ne aveva pena casomai.
Ma il pitone, nel cinico suo silenzio, nutrendosi della sua esperienza, cresceva giorno dopo giorno, fino a quando, raggiunta la sua stessa altezza, lo ingeriva defraudandolo del suo lavoro.
La maggior parte di quei 18000 giorni veniva così cancellata da una frase, da quel “mi dispiace”(pronunciato prima dai colleghi, successivamente dalla moglie) che riecheggerà frequente nel corso della rappresentazione.

Questa opera teatrale, pur non priva di pecche (la più straniante delle quali è la scarsa incisività: molte sono le pause di una narrazione comunque impreziosita dalle note soavi del cantautore cuneese), mette in risalto una problematica spesso dimenticata, offuscata dalla grave crisi occupazione giovanile: la perdita del lavoro a cinquanta anni.

Una prima superficiale disamina indurrebbe a credere che il licenziamento sia scaturito dalla opprimente “stretta” del pitone; in realtà quello che è inteso come uno “spietato predatore”, si rivela essere solo un’inconsapevole vittima della realtà odierna, della sua nuova “caccia alle streghe”, dove al posto di eretici e senza Dio trovano posto in “falò e auto da fè” gli sprechi e l’esigenza di generare utili e profitti.
Oramai un operaio, un professore,un uomo risultano alle ciniche menti di ingegneri e gestori, come dei costi, dei capitali immobilizzati da dover assegnare per altro di più remunerativo, magari per una pubblicità o un nuovo parco macchine.

Ma questa è “storia vecchia”: è dai tempi di Taylor e Ford e delle loro “stanze della programmazione” che l’uomo ha perso la sua dignità di lavoratore e ha acquisito quella di ingranaggio o “risorsa umana” nella moderna accezione aziendale.
La grande novità che ci differenzia dai nostri nonni e, in alcuni casi, dai nostri padri la scorgiamo negli occhi dei tanti che affollano i negozi, gli uffici, le fabbriche e, a sera, le nostre strade.
Mi spiego meglio. Torniamo al nostro protagonista.

Il suo più grande senso di frustrazione lo dimostra nell’elaborare che la sua azienda lo ha licenziato dopo 27 anni di carriera, sfociata numerose volte nel servilismo.
Una carriera in ascesa, brillante, per la quale è stato sacrificato anche il funerale dell’anziano padre giunto proprio in concomitanza con un’importante riunione a Londra a cui “proprio non poteva mancare”.
E poco importa se suo figlio, andando a letto, avrebbe voluto un abbraccio consolatorio per un brutto voto a scuola, un consiglio per conquistare una bambina che gli piaceva, un bacio che lo avrebbe tranquillizzato dagli incubi notturni.
E sua moglie, alle prese con una quotidianità da affrontare da sola, con i problemi di una famiglia, da risolvere senza l’unione della famiglia.
Ma lui, troppo occupato a sbrigare faccende per questo o altro capo, ad assolvere mansioni da lacchè – solamente per la scrivania più grande vicino la finestra “… da dove si vede la mole …” – non si accorgeva che la sua famiglia aveva perso la sua guida, la sua unità.

Il terremoto del licenziamento seguito dall’abbandono familiare però non riuscirà a generare nell’uomo un istinto di ribellione, di “riconquista” della sua dignità di lavoratore, di marito, di uomo.
Vinto dalla sua solitudine, il protagonista si lascia sedurre dal conforto d’una calma apparente, seppellendosi con gli ultimi vestiti rimasti, sparsi sul pavimento, fingendo d’esser morto; solo così sarà salvo dalla quotidianità che lo ha ucciso.

Si muovono silenti, all’apparenza inoperose. Si avvicinano alla preda con fare sinuoso, l’avvolgono, la inghiottono, incuranti della sua specie, della sua vita, della sua famiglia.
Il sogno del successo, il desiderio di ricchezza, il mito del “self made man”: questi i veri nemici.
Questi i veri pitoni.