“La nostra Unità si chiama Costituzione”

di Antonio Anteneh Mariano e Salvatore Romeo (’84)

Mercoledì 17 è stato il “compleanno dell’Italia”, come qualcuno ha detto. Un tripudio di bandiere, inni, discorsi celebrativi ha inondato il paese. Di questa ricorrenza abbiamo voluto parlarne con il prof. Alberto Mario Banti, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa. Autore di numerosi saggi sull’idea di “nazione italiana” (fra gli altri: La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi 2007, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza 2011), Banti ha indagato in particolare le origini di questo concetto nell’ambiente risorgimentale.

Partiamo da lontano, dall’idea di nazione. Eminenti storici – da Mosse ad Hobsbawm – hanno dedicato grande attenzione a questo tema, inquadrandolo come un’innovazione fondamentale dell’età contemporanea. Come si è formata l’idea di “nazione italiana” e quali implicazioni essa ha avuto sul processo risorgimentale?

L’idea di nazione italiana si forma alla fine del Settecento sull’esempio di ciò che era successo con la Rivoluzione francese. E’ infatti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che si dice molto chiaramente che è la nazione che possiede la sovranità politica. Questo principio viene importata dai patrioti italiani negli anni successivi. Inizialmente c’è un po’ di discussione su quale dovesse essere la nazione di riferimento (cisalpina, piemontese, napoletana, veneziana…). Ma è un’incertezza che dura poco perché i leader politici e gli intellettuali si orientano presto verso l’idea di “nazione italiana” perché identificano la lingua e la letteratura italiana come un segno dell’esistenza di questo soggetto collettivo. Anche nel caso italiano dunque la nazione è una “invenzione” intellettuale ed è un concetto propulsore perché fa partire il movimento risorgimentale. L’idea che infatti ispira quest’ultimo è che, esistendo la nazione italiana, avrebbe dovuto essere istituito lo Stato italiano.

Un certo “luogo comune” molto caro alla sinistra vuole Risorgimento e Resistenza accomunati da una medesima istanza di riscatto patriottico: il legame ideale fra questi momenti così distanti è il frutto di un’operazione ideologica precisa?

Ci sono molti resistenti e molte formazioni partigiane che consideravano la Resistenza come “secondo Risorgimento” – anche perché, come ci ha spiegato Claudio Pavone, la guerra del 1943-45 ha avuto anche l’aspetto di “guerra patriottica” contro l’occupante tedesco, oltre che di “guerra civile” e “guerra di classe”. Ma bisogna aggiungere che vi furono anti-fascisti che non erano assolutamente d’accordo con questa idea. Anche importanti intellettuali morti prima che la Resistenza avesse luogo – si pensi a Piero Gobetti o ad Antonio Gramsci – ritenevano che il Risorgimento non fosse il presupposto di movimenti innovatori, anzi vedevano linee di continuità fra lo stesso Risorgimento e il Fascismo. Oltre tutto anche in Giustizia e Libertà – formazione politica e partigiana – si scatenò una polemica fra quanti (come Rosselli) pensavano che il movimento dovesse trovare nel Risorgimento la sua fonte d’ispirazione e chi (fra gli altri Chiaromonte) invece affermava che la nuova Italia non avrebbe dovuto avere nulla a che fare con quella che fece seguito all’unificazione. Le posizioni, insomma, erano molto variegate.

Un altro tema ricorrente a proposito del Risorgimento è quello della “rivoluzione tradita”– i cui natali risalgono forse allo stesso Garibaldi –, recentemente riproposto dal film di Mario Martone, “Noi credevamo”, e dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, “I traditori”. Ma nella cultura risorgimentale che tipo di rapporto c’era fra istanza nazionale e desiderio di trasformazione sociale? Quale fu la dialettica fra queste componenti e come si risolse?

Tutti i protagonisti del Risorgimento erano uniti dall’istanza di “fare l’Italia”, ma erano molto divisi sul piano delle proposte politico-costituzionali. C’era chi voleva uno Stato repubblicano e democratico – come Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Ferrari ecc. –, altri invece avevano una concezione elitista, liberale – Cavour, D’Azeglio ecc. –; non erano posizioni conciliabili e per questo ci fu uno scontro all’interno del movimento risorgimentale. Com’è noto l’esito fu preciso: vinse la componente liberal-moderata-monarchica. Il suffragio venne ristretto al 2% della popolazione: maschi, adulti, alfabetizzati, super-ricchi. Per coloro che sostennero ideali repubblicani o democratici questa fu una grandissima delusione. Furono questi soggetti ad elaborare l’idea della “rivoluzione tradita”; di contro, la destra e la sinistra liberali videro realizzate le proprie ispirazioni. Infine c’era chi – come Pisacane e Ferrari – auspicava che il Risorgimento desse luogo a una rivoluzione anche sul piano sociale… e beh lì la distanza fra le aspettative e le realizzazioni fu davvero abissale! Il Regno d’Italia conservò e difese le disuguaglianze sociali.

Veniamo all’oggi. Lei ha criticato il “discorsetto” di Benigni a San Remo sostenendo che “il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco”. Come si articola questo “patriottismo di ritorno” con il culto delle “piccole patrie” fortissimo oggi nel nostro paese (non penso solo alle rivendicazioni della Lega, ma anche alle tante proposte di referendum per la costituzione di nuove entità regionali: dalla “Lunezia” al “Grande Salento”…)?

Rispetto a questi movimenti c’è stata una reazione soprattutto negli ultimi quindici anni – molto promossa dall’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi -, che ha rilanciato fra le altre cose il patriottismo neo-risorgimentale. Io capisco l’intenzione etica di difendere l’integrità della Repubblica e la condivido, ma trovo strano che lo si debba fare ripescando la cultura politica del Risorgimento, che è molto lontana da noi. Parliamo di un movimento del XIX secolo dalla chiara ispirazione nazionalista. Mi sembrerebbe più consono al contesto in cui viviamo se ci mettessimo a difendere l’integrità della Repubblica italiana rilanciando e difendendo i valori della Costituzione. Ma se si vanno a riprendere gli ideali del patriottismo risorgimentale – come ha fatto Benigni – rischiamo di sprofondare nel peggiore nazionalismo. Se inizio a dire che sono italiano perché discendo da Scipione l’Africano o da Alberto da Giussano, a parte il fatto che dico una fesseria sul piano storico, ma insinuo che ci sia una specie di “sangue italiano”, un elemento pericoloso di differenziazione razziale dagli altri popoli – o meglio, dallo “straniero”. Oppure se esalto la bellezza della “morte in battaglia” vado contro la nostra Costituzione che dice chiaramente “l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Lasciamo stare la mitologia bellica nazionalista – ma è ovvio che se vado ad esaltare il Risorgimento inevitabilmente la tiro fuori, perché è incorporata nel Risorgimento.

Non crede che lo “stringiamci a coorte” che si sente riecheggiare in queste settimane nel paese sia in qualche modo correlato alla crisi che sta attraversando e lacerando la società italiana? Il patriottismo insomma si viene a configurare come risposta ideologica ad un bisogno reale di coesione, mistificando le responsabilità che la politica dovrebbe assumersi in questa difficile fase. Che ne pensa?

Quello che è successo il 17 marzo è stato un grande momento di partecipazione, in cui molti si sono sentiti parte di una comunità. Io ero a Genova e sentivo parlare del Risorgimento anche la gente per strada, in maniera critica talvolta, ma sempre con rispetto. Dall’altra parte c’è il paradosso che un partito che ha all’articolo 1 del suo statuto l’obbiettivo di “realizzare l’indipendenza dei popoli padani” sta al governo nazionale. Sarebbe come se la rappresentanza politica dei baschi stesse al governo in Spagna! E allora, per controbilanciare questa strana situazione che imbarazza prima di tutto la destra, si tirano fuori i tricolori, le celebrazioni, l’inno…

Ultima domanda. Lei recentemente all’Università di Trento ha proposto il concetto di “patto politico” come fondamento di un nuovo spirito patriottico in contrapposizione al principio di “nazione italiana”. Può un popolo rinunciare alla spinta quasi religiosa che gli deriva da concetti come “Patria” e costituirsi in maniera ordinata attorno a un patto sociale come la Costituzione? Non è quest’ultima un’operazione troppo “fredda” sul piano simbolico-emotivo?

Non c’è dubbio che la nazione è un discorso molto forte sul piano comunicativo e presuppone una certa minorità da parte degli interlocutori – uno ha bisogno del mito, della favola fantastica così si sente forte. Ma forse possiamo uscire dalla minorità, forse possiamo renderci conto di ciò che già è il nostro essere parte di una comunità repubblicana – noi siamo già uniti dalla Costituzione. Il problema è che nessuno conosce la Costituzione, non esistono rituali che la celebrino e allora molti non si rendono conto di questa unità. Il mio ragionamento era un po’ questo: così come gli stranieri che diventano cittadini italiani sono tenuti a prestare giuramento nei confronti della Costituzione, perché non lo si fa fare anche a tutti i ragazzi e le ragazze italiane che raggiungono la maggiore età – ma, aggiungerei, a tutti gli italiani in generale? La Costituzione oggi è un libretto che sta lì, ignorato dai più; se si fosse chiamati a giurare su di essa, naturalmente dopo averla letta e averci riflettuto su, si avrebbe un salto di consapevolezza notevole dei propri diritti politici. Allora diventerebbe una cosa viva e noi tutti verremmo ispirati dai suoi valori.