Senza politica De Cataldo non basta

di Salvatore Romeo (’84)

“Tanto tuonò… che piovve.” Finalmente, a distanza di cinque mesi da quando se ne diede l’annuncio, le proposte di Giancarlo De Cataldo vedono la luce. Come lo scrittore aveva precisato nell’intervista pubblicata da Siderlandia due settimane fa, si tratta di tre progetti specifici: un input per il contesto culturale locale.
La prima proposta è un’iniziativa circoscritta all’ambito musicale, rivolta specificamente alle aree marginali, che non si esaurisca però nel solo insegnamento della musica, ma preveda laboratori per la fabbricazione degli stessi strumenti. Il tutto concretamente realizzato da personale qualificato, adeguatamente retribuito. Gli altri due progetti sono festival di tre giorni, che dovrebbero assumere di cadenza annuale: dedicato alla Magna Grecia, il primo, e al rapporto fra città e industria, il secondo. Si tratterebbe di eventi prevalentemente artistici, che vedrebbero la partecipazione di talenti internazionali, nazionali e locali.
Si tratta di proposte indubbiamente interessanti, ma per giudicarle è necessario, anzitutto, analizzare il contesto culturale al quale dovrebbero aderire.

A Taranto, fatta eccezione per rari e significativi casi, la cultura è terreno in cui fortissima è la presenza del volontariato. Tante sono le iniziative – sorte soprattutto negli ultimi anni – che, abbracciando i campi più disparati dell’arte e della conoscenza, hanno provato a scalfire una certa atrofia sedimentatasi negli “anni del consenso” ad una destra che al solo sentire la parola “cultura” metteva le mani al manganello o alle casse comunali – per progetti faraonici e inutili. In qualche modo quel risveglio ha accompagnato l’affermazione di Stefàno e si è alimentato della speranza che seguì a una vittoria che sembrava dovesse rappresentare una reale svolta per la città. E ancora oggi che quella primavera si è mutata per molti nell’“inverno del nostro scontento”, la tensione, sul piano delle iniziative culturali, resta alta.
Il fermento che faticosamente cerca di emergere è dunque un segnale positivo di vitalità: per molti versi la disillusione politica anziché deprimere le forze culturali, le ha invogliate a rilanciare la sfida; di fronte all’inerzia delle istituzioni esse sembrano aver risposto: “guardate, vi facciamo vedere noi come andrebbero fatte le cose!”. Benissimo, ma quanto durerà?
Veniamo qui al problema principale correlato al volontarismo di molte iniziative (Siderlandia compresa). In assenza di una prospettiva di professionalizzazione esse continuano a vivere in uno stato di completa precarietà. Tale limite riguarda particolarmente i progetti portati avanti dai giovani; ne parlo con una certa cognizione di causa: per la stragrande maggioranza di noi a Taranto non c’è posto. Possiamo continuare a seguire le nostre iniziative finché il tempo ce lo permetterà. Ma quanto tempo vuoi avere se sei angosciato dalla ricerca di uno straccio di lavoro? Per la maggior parte di noi la passione dell’impegno è spesso più che compensata dai sacrifici cui dobbiamo sottostare per conciliarla col “dovere”. “Lavorare stanca”, ma vivere da precari sfinisce. E così tanti progetti nati da un impeto di entusiasmo vengono abortiti poche ore dopo essere stati concepiti, quando – guardandoci negli occhi e mettendo al portafogli – ci diciamo, mentendoci per pudore, “magari riparliamone fra un mesetto, che avrò un po’ più di tempo…”
E’ operazione da facili profeti prevedere che la maggior parte delle iniziative promosse da giovani nella nostra città fra non molto, venuta meno l’iniziale “fede cieca” che porta a sopportare anche la più atroce fatica, si esauriranno. Chi già vive fuori si distaccherà sempre di più dal contesto d’origine, molti di quelli che sono rimasti andranno via, chi resterà si sentirà sempre più solo…
Così, quello che non è riuscito a un quindicennio di cialtroni al potere, riuscirà per effetto dell’emigrazione. Ma è troppo facile metterla in questi termini, scaricando magari le colpe su chi parte. Alla base di questo deflusso di energie – e dell’indebolimento della società civile che ne conseguirà – vi è un punto fondamentale: mai nessuno a Taranto ha concepito la cultura come settore economico.
Alla base di questo atteggiamento non c’è solo la miopia dei gruppi dirigenti locali (mi riferisco agli operatori economici oltre che ai politici), ma un limite strutturale che ancora una volta rimanda all’emigrazione giovanile. Non sarà un caso se le città culturalmente più vivaci sono anche quelle che attraggono giovani intelligenze dalle aree periferiche della provincia italiana. A livello del capitale umano e sociale si riproduce, in fin dei conti, la stessa dinamica che interessa il capitale fisso: i fattori produttivi tendono a concentrarsi laddove già insiste una struttura relativamente avanzata. Per quelle aree e quelle città si viene quindi a configurare un circolo virtuoso: l’afflusso di talenti e di fruitori di cultura espande continuamente il mercato locale di quel particolare tipo di beni. L’altra faccia della medaglia è l’impoverimento progressivo cui vanno incontro le aree periferiche. Da questi contesti emigrano non solo i potenziali protagonisti della vita culturale, ma anche il “pubblico”: in questo modo la domanda si restringe e gli operatori non trovano conveniente rivolgere i propri investimenti in quel settore. Ne deriva quel trionfo del volontarismo segnalato sopra. I soli soggetti in grado di far crescere tali iniziative restano a quel punto le istituzioni pubbliche.

“Eccoci giunti alle dolenti note”… il circolo vizioso cui si è accennato potrebbe essere quanto meno limitato da adeguate politiche pubbliche. E invece cosa accade? In questa sede si sta analizzando una proposta riguardante il Comune: è dunque alle politiche culturali di tale ente che bisogna guardare. Non si deve essere notevoli analisti politici per rilevare che, su questo piano, la discrepanza fra le aspettative suscitate e i risultati fino ad oggi conseguiti dall’amministrazione Stefàno è più che altro un abisso.
Mettendo da parte le tristi vicende della programmazione estiva (approvata ufficialmente il 13 agosto) o del “concertone” di Capodanno, vi sono lacune imperdonabili. Fra queste spicca la gestione di Cantiere Maggese. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un punto di riferimento per gli operatori culturali locali è stato gestito in un modo che definire “inefficiente” sarebbe fare un complimento ai suoi amministratori – e ai loro referenti politici. A tutt’oggi una sala di registrazione ed una di montaggio cinematografico – con dotazioni tecnologiche d’avanguardia – sono inscatolate e conservate nei magazzini della struttura di Largo San Gaetano.
Mentre accade questo la stessa amministrazione comunale si permette di ignorare una petizione inoltrata ufficialmente al Sindaco da oltre 50 associazioni per l’affidamento di spazi dove svolgere attività culturali – e superare così uno dei principali ostacoli che gli operatori oggi incontrano.
Alla luce di questo clamoroso fallimento l’adozione delle proposte di De Cataldo potrebbe rappresentare l’avvio di un “secondo tempo” nel corso del quale tentare di recuperare la magra figura fatta in questi ultimi quattro anni. Sarà irresistibile per l’attuale maggioranza la tentazione di sbandierare come un programma di svolta i tre suggerimenti dello scrittore. Peccato però che lo stesso De Cataldo abbia detto chiaro e tondo: “questo è quello che io posso offrire, poi dovete vedervela voi”.
Ora, se il Sindaco e i suoi si lasciassero convincere dell’opportunità di usare strumentalmente le proposte di De Cataldo non solo dimostrerebbero in maniera incontrovertibile che il difetto principale dell’attuale giunta è l’assenza di qualsivoglia strategia sul piano della politica culturale, ma – quel che più conta – si rivelerebbero del tutto inconsapevoli della situazione che caratterizza il nostro contesto culturale e dei problemi ad essa correlati.
Le proposte di De Cataldo, infatti, soddisfano solo in minima parte le esigenze strutturali sottolineate in precedenza. L’idea di puntare a una professionalizzazione delle competenze sul piano della produzione di strumenti ed espressioni musicali coglie nel giusto segno, ma evidentemente il campo di applicazione è troppo ristretto (perché no allora l’editoria, il teatro, le arti figurative?). Quanto ai due “grandi eventi”, l’ottica che li ispira appare decisamente di corto respiro. Indubbiamente si tratterebbe di occasioni irripetibili per godere delle performance di artisti e intellettuali di calibro, ma, levate le tende, cosa resterebbe al contesto locale? Probabilmente una serie di impulsi creativi che andrebbero però a infrangersi contro il desolante panorama quotidiano.
Le proposte di De Cataldo dunque, se realizzate, sarebbero opportunità significative, ma inevitabilmente parziali. E d’altra parte neanche si può rimproverare allo scrittore un difetto di organicità: le proposte hanno necessariamente quella natura. De Cataldo, insomma, ha fatto il suo. Ma una cosa sono le proposta, un’altra le strategie – e, verrebbe da aggiungere, una cosa è un intellettuale che occasionalmente offre una sponda alla politica, altra persone e gruppi che al bene comune dovrebbero essere portati “per professione”. La domanda a questo punto sorge spontanea: cosa dovrebbe fare la politica per affrontare alla radice la questione del “sottosviluppo culturale” della nostra città?
Il problema generale è quello di porre un freno all’emigrazione – per rafforzare il mercato culturale locale, trattenere i talenti ed offrirgli una prospettiva di professionalizzazione che gli consenta di sviluppare iniziative solide. L’intervento pubblico potrebbe assumere allora i contorni di un’agenzia specializzata, che assista sul piano finanziario, legale e tecnico gli operatori nella fase di passaggio dal “volontariato” all’“impresa”. In particolare, andrebbero privilegiati progetti fondati su programmazione di lungo periodo e cooperazione con altre iniziative. La struttura potrebbe anche configurarsi come ente pubblico, ma dovrebbe essere la più autonoma possibile dall’amministrazione. Anzi tutto, per evitare le interferenze politiche che già si registrano a livello delle partecipate, ma anche per conferire all’organo una dinamica diversa da quella della P.A. L’ente dovrebbe essere il più snello e operativo possibile e fare leva su personale altamente qualificato. La differenza rispetto ad un programma tipo “Bollenti Spiriti” sarebbe che, mentre in quel caso l’intera operazione viene gestita dagli uffici di un assessorato (quello alle politiche giovanili), con tutte le lentezze e le incertezze (quando sarà il prossimo bando, se ci sarà?) che ne derivano, l’ente qui delineato dovrebbe maturare invece un contatto diretto con la realtà, intervenendo con la rapidità e la flessibilità caratteristica dei tempi e dei modi d’impresa. Di conseguenza, dovrebbe potersi finanziare anche facendo ricorso al mercato.
Se tale proposta è subordinata ad una disponibilità finanziaria che richiederebbe qualche anno per maturare (si consideri tuttavia che dal prossimo anno il Comune di Taranto uscirà dalla fase di dissesto), si potrebbe nel frattempo avviare la strategia di sostegno alle energie locali con un “bilancio partecipato della cultura”. L’assessorato competente dovrebbe aprire la definizione del proprio bilancio al contributo degli operatori, selezionando anche in questo caso le proposte sulla base dell’estensione temporale dei programmi e del grado di cooperazione in essi espresso, premiando in particolare gli sforzi volti alla professionalizzazione delle attività. In questo caso ci si troverebbe certo a scontare il “peso” della politica, a sarebbe pur sempre un inizio.

Di fronte alla compagine che attualmente governa a Palazzo di Città si pongono dunque, sul piano della politica culturale, almeno due ipotesi: cavalcare la tigre-De Cataldo, limitandosi a realizzare (ammesso – e tutt’altro che concesso! – che poi lo si faccia) i tre progetti indicati dallo scrittore oppure aggredire le cause della debolezza del nostro contesto culturale con politiche coerenti. Un’ipotesi in realtà non necessariamente esclude l’altra. Il laboratorio musicale potrebbe essere esteso ad altri campi, mentre gli eventi cui De Cataldo ha accennato potrebbero essere rimodulati mettendo al centro gli sforzi degli operatori locali (valutando tuttavia la misura dell’investimento nel quadro della politica di programmazione, che dovrebbe divenire lo schema fisso entro il quale prendere qualsiasi decisione). Questa eventualità costituirebbe un banco di prova importante per misurare la disponibilità dei protagonisti della vita sociale e culturale tarantina a mettersi in gioco. E poco male se ci perderemo la lectio magistralis di Umberto Galimberti piuttosto che le evoluzioni drammaturgiche di Emma Dante. D’altra parte le città che oggi ospitano Festival importanti (della letteratura, della filosofia ecc.) esprimono già un contesto culturale solido. Imitare quelle esperienze sarebbe non solo dare ulteriore prova del nostro provincialismo, ma soprattutto dimostrare di avere una cognizione dei problemi strutturali della città al limite del surreale. Una condizione che un gruppo che si candida a restare classe dirigente politica non può proprio permettersi.