Crisi economica. A che punto è la notte?

a cura di Roberto Polidori

Taranto non è un’isola “infelice” ed inquinata all’interno di un contesto socio-economico italiano ed europeo  perfetto e giusto. Dopo la “sbornia” da elezioni amministrative e le correlate polemiche, gli amministratori comunali dovranno fare i conti con una realtà necessariamente condizionata dalle decisioni dei governanti italiani ed europei. Diciamolo chiaramente: il governo Monti ci sta condannando ad almeno 15 anni di fame e stagnazione ipnotizzandoci con il mantra dei “problemi strutturali” delle economie di mercato attuali. Non lo affermiamo solo noi (non siamo così qualificati) e non lo dicono solo i “soliti” economisti eterodossi italiani, alcuni dei quali – dati storici alla mano – evidenziavano i pericoli delle politiche di austerità fin dal 2008. Giorno dopo giorno un numero impressionante di economisti “liberisti” americani ed europei sta, con crescente preoccupazione, ammonendo su pericoli dell’applicazione del  Fiscal Compact per la stabilità e l’esistenza stessa del progetto europeo. Sfogliando solo le prime pagine dei quotidiani più importanti di Sabato e Domenica, è possibile leggere articoli in tal senso di De Benedetti, La Malfa e addirittura del finanziere George Soros, gente certamente allineata  al modello economico classico eppure profondamente scossa dalla profondità e dalla radicalità con cui tagli al welfare e incrementi di imposte stiano velocemente impoverendo fette crescenti di popolazione europea. L’affermazione elettorale di Hollande – alla cui analisi è riferito il primo brevissimo articolo – è un segnale importante di cambiamento ed opposizione a quelle politiche nella misura in cui quest’ultimo declinerà le sue istanze decidendo di “spaccare” il sistema (per dirla con De Magistris) piuttosto che allinearsi con qualche “aggiustatina” alle istanze tedesche di politica economica. Ma la situazione statunitense – analizzata nel secondo articolo del Premio Nobel Krugman – non è troppo migliore di quella europea.

Come sostenuto da Gideon Rachman sul Financial Times dell’8 Maggio scorso, qualsiasi accordo europeo essenzialmente monetaristico tra Hollande e Merkel smaschererebbe come vacua la retorica anti-austerità di Hollande. Quest’ultimo verrebbe abbandonato dalla sinistra di Jean – Luc Melenchon, arrivata quarta al primo turno delle presidenziali. E, soprattutto, si alienerebbe la periferia dell’Europa e l’intera regione del Mediterraneo che vede nella Francia un leader  ed un alleato per promuovere politiche sociali. A giudicare da come la regione appare dopo le primavere arabe e le crisi siriana, libica, tunisina ed egiziana, la Francia direbbe addio alla sua partnership euro-mediterranea. E’ ormai chiaro che l’Europa è davanti ad un bivio: o sceglie un’agenda federale keynesiana a favore della crescita e del welfare, o sacrifica la sua popolazione sull’altare del salvataggio delle banche e dei trafficanti di titoli del debito pubblico. Se la prima opzione non è sul tavolo, non lo è nemmeno la seconda – basta guardare ai risultati delle elezioni e ai movimenti sociali in Grecia. Il popolo greco ha mostrato all’Europa non solo la strada da imboccare in politica economica, ma anche come fermare l’avanzata nel Continente del neo-fascismo.

Vassilis Fouskas

Professore di Relazioni Internazionali presso l’Università di Richmond, Londra.

Semplici teorie economiche inutili*

Alcuni giorni fa ho letto un saggio sull’ American Economic Review, una delle riviste scientifiche più importanti al Mondo in campo economico, scritto da autorevoli economisti che alla fine argomentavano come l’alto tasso di disoccupazione americana avesse profonde radici strutturali non facilmente sradicabili. La diagnosi degli autori era la seguente: l’economia americana non è abbastanza flessibile per adeguarsi ai rapidi cambiamenti tecnologici. Il saggio era particolarmente critico nei confronti dei programmi di assicurazione sociale contro la disoccupazione poiché, secondo gli autori, il sussidio colpisce i lavoratori nel senso da ridurne l’incentivo a trovarsi un lavoro da soli, minando l’efficienza del sistema. Ok, c’è qualcosa che non vi ho detto: il saggio è stato pubblicato nel Giugno del 1939. Solo alcuni mesi dopo scoppiò la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti – sebbene non ancora coinvolti nel conflitto – cominciarono una portentosa campagna di spesa pubblica militare che, alla fine della guerra, fu comparabile con le dimensioni economiche della depressione del decennio 1929-1939. Nei due anni successivi a quest’articolo sull’impossibilità di una celere ripresa dell’occupazione americana, il tasso americano di occupazione nei settori non industriali aumentò del 20%, l’equivalente alla creazione di 26 milioni di posti di lavoro oggi.

In questo momento ci troviamo in un’altra depressione economica, non così grave come l’altra, ma abbastanza grave. E, nuovamente, personaggi che sembrano autorevoli ci continuano a dire che i nostri problemi  sono “strutturali”, che non possono essere risolti brevemente, ma nel “lungo periodo” e la gente deve fidarsi di questi personaggi, confidando che essi siano responsabili. Ma la verità è che costoro si stanno comportando in modo profondamente irresponsabile.

Che significa affermare che noi abbiamo problemi “strutturali” di disoccupazione? La vulgata comune include il riferimento al fatto che gli operai americani lavorino in settori “maturi e vecchi” e che non abbiano le competenze adatte. Un recente gettonatissimo articolo di Ranghuram Rajan – Professore dell’Università di Chicago – afferma che il problema più grosso è come decongestionare dai lavoratori in eccesso il settore edile, quello finanziario e quello governativo.

In realtà l’occupazione del settore pubblico è piatta da decadi, ma non importa: ciò che realmente conta è che, al contrario di ciò che questo articolo farebbe pensare, la perdita di posti di lavoro non è stata maggiore nei settori maggiormente cresciuti all’apice della crescita (e quindi ritenuti “colpevoli” della bolla), ma si è distribuita uniformemente in tutti i settori produttivi, così come è già successo negli anni trenta.  E ancora, se realmente ci fossero tanti lavoratori con competenze non appetibili o troppo concentrati in determinati settori, i lavoratori con le giuste competenze ed al “posto giusto” avrebbero dovuto far registrare grandi incrementi di salario. Ed invece ciò è successo per pochi “vincitori”.

Tutto ciò suggerisce che noi non stiamo soffrendo le pene di un qualche tipo di transizione strutturale che deve gradualmente fare il suo corso, ma piuttosto soffriamo di una mancanza di domanda generalizzata – il tipo di problema che potrebbe e dovrebbe essere velocemente curata con programmi pubblici atti ad incrementare la spesa generale.

Ma allora perché questa spinta ossessiva nel dichiarare i nostri problemi “strutturali”? E voglio proprio dire  “spinta ossessiva”. Gli economisti hanno dibattuto su questo problema per diversi anni e gli “strutturalisti” non sono stati capaci di rispondere a una sola delle nostre domande, non importa quanto importanti fossero le nostre evidenze scientifiche a loro presentate.

Io credo che proprio il riferimento ai “problemi strutturali” sia la scusa che questi economisti utilizzano per non agire, per non fare niente che allievi la piaga della disoccupazione. Ovviamente gli “strutturalisti” ci dicono che noi pretendiamo aggiustamenti veloci, mentre loro “mirano ad aggiustamenti di lungo periodo”  – benché non sia per niente chiaro cosa le politiche di “lungo periodo” siano, oltre al piccolo particolare che queste implicano pene incredibili oggi per lavoratori e poveri.

In ogni caso J.M. Keynes aveva la seguente considerazione di queste persone circa 80 anni fa :”il lungo periodo è una guida fuorviante per gli attuali problemi. Nel lungo periodo saremo tutti morti. Gli economisti investono se stessi di un compito troppo facile ed inutile se, nelle stagioni tempestose, ci dicono che, quando la tempesta sarà passata, il mare tornerà piatto”.

Vorrei aggiungere che inventare ragioni per non fare niente per ridurre l’attuale tasso di disoccupazione non è solo crudele e distruttivo, ma è anche una cattiva politica di lungo periodo. Questo perché vi sono prove sempre più evidenti che  l’effetto corrosivo della  disoccupazione crescente attanaglierà per molti anni la nostra società. Ogni volta che qualche politico auto-referenziale comincia a blaterare su quanto i deficit di bilancio peseranno sulle generazioni future, ricordate che il problema più grosso che angoscia i giovani americani di oggi non è il futuro deficit di bilancio – un debito che, tra le altre cose, i prematuri tagli di spesa sociale aggraveranno e non miglioreranno. Il problema più grosso è la mancanza di lavoro che sta impedendo ai giovani americani laureati di vivere la propria vita.

Quindi tutte queste chiacchiere sui “problemi strutturali” non vogliono affrontare i problemi reali, ma evitarli: è la solita comoda inutile via d’uscita dai problemi. E’ ora di cambiare.

Paul Krugman

Premio Nobel Economia 2008

*: Articolo di fondo pubblicato sul New York Times in data 10/05/2012. traduzione di Roberto Polidori