Contro il sudismo*

di Alessandro Leogrande

Ci sono i sudisti e ci sono i meridionalisti. I due termini non sono affatto sinonimi. Anzi, indicano due predisposizioni mentali del tutto opposte. Il meridionalismo storico (quello di Salvemini, Dorso, Rossi-Doria…) non ha mai messo in discussione l’unità di Italia e ha sempre rifiutato i toni apocalittici, perché intimamente reazionari. Ha sempre pensato che l’analisi dei mali del Sud dovesse essere inquadrata in un progetto critico razionale, e che la soluzione dei problemi potesse venire solo all’interno di una cornice democratica e nazionale. Salvemini era sprezzante non solo contro gli artefici – a vario titolo – della disunità d’Italia, ma soprattutto contro i Cocò del Mezzogiorno, emblema di quella piccola borghesia incolta, parassitaria, immobile, avvezza al “particolare”… Oggi i Cocò sono dilagati e si sono incistati nelle amministrazioni locali. Il sudismo non ha niente a che fare con tutto questo. Non è altro che la sempiterna ripetizione dell’elogio del buon tempo andato. Il credere che il Regno di Napoli fosse il migliore dei regni possibili, che 150 anni di Unità sono un cumulo di violenza e rapina ai danni di una società idilliaca, priva di crepe. Di contro c’è un’altra variante del sudismo: l’interpretare il Sud come inferno irredimibile. Una terra lazzarona, dove le anime belle muoiono o vengono uccise, o non riescono a fare un bel niente. Una terra amara che impone sempre e comunque un aut aut: rimanere e perire; o andarsene per sempre.

Oggi il meridionalismo pare moribondo, mentre i sudismi sono vivi e vegeti, e hanno disseminato una fucina di luoghi comuni difficile da estirpare. Il lamento neoborbonico ha in Pino Aprile (autore di Terroni eGiù al Sud) il suo maggior rappresentante. Quando parla della “conquista” del Sud, Aprile fornisce numeri da genocidio. Scambia i briganti devoti alla triade Dio, Patria (di Franceschiello) e Famiglia per martiri della libertà. Ma soprattutto dimentica la grande tradizione del repubblicanesimo meridionale, anche con le sue sconfitte (quelle raccontate da Martone in Noi credevamo, per intenderci). Le rivendicazioni di Aprile rinfocolano una furia diffusa che cova sotto la cenere. I suoi libri agitano i sogni separatisti di una classe dirigente locale che si crede immacolata tanto quanto destinataria di poche risorse.

Di furia parla anche Angelo Mellone nel suo recente poema Addio al Sud. Apparentemente siamo agli antipodi di Aprile. Mellone si definisce un “fottuto nazionalista”, e avrebbe volentieri impalato un po’ di briganti. Ma, pagina dopo pagina, la sua tetra descrizione di uno sfascio abitato da diavoli, dal quale occorre congedarsi ora e subito in attesa di improbabili eroici ritorni, appare come l’altra faccia della medaglia. Il sudismo nazionalista (Mellone evoca addirittura un’adesione ideale alla Repubblica sociale) va di pari passo con il sudismo neoborbonico, mentre sullo sfondo aleggia il solito sudismo folclorico, calderone di tic, pregiudizi, stereotipi come nel film Benvenuti al Sud di Luca Miniero.

Impossibile non provare una profonda nostalgia del meridionalismo che fu: intransigente ma lucido, riformista, attento alle analisi. In grado di cogliere ciò che si sottrae alla dissipazione per difenderlo e irrobustirlo. A Sud si può vivere, e anche impegnarsi. Certo, con grandi difficoltà. Ma basta con le solite caricature e le lagne reazionarie.

*uscito su «La Lettura» del «Corriere della Sera» giovedì 12 aprile