La morte ti fa rockstar

di Cosimo Spada

Nella primavera del 1993 ero in gita di terza media dalle parti di Ravenna – il 1993 mi faceva schifo come anno, e quella gita con ragazzini arrapati e belli mi deprimeva, perché pure io ero arrapato, ma non ero bello e a nessuno importava.

Ciò che peggiorò la situazione fu una ragazza che chiese di mettere una cassetta da ascoltare nell’autobus. La cassetta conteneva tutti i “successi” di Marco Masini… Per mezz’ora fummo tutti risucchiati nel vortice della disperazione, manco fossimo un gruppo di aspiranti suicidi che volevano darsi la carica per un simpatico suicidio di massa. Nessuno faceva nulla, nessuno di noi aveva il coraggio di fermare quello scempio. A salvarci la vita fu il roccioso professor Fontana di educazione fisica, che dopo aver per un po’ assecondato i dolori della giovane ragazza proruppe: “Mò avast, e ce è sta sufferenz?”. Prontamente qualche ragazzo per salvare la situazione e ridarci allegria offrì una cassetta con il meglio della dance di quegli anni; e fu la dance… What is looove Baby don’t hurt me/don’t hurt me..no more….

Io ne trassi un insegnamento quella volta: non volevo più sentire una sola canzone depressa in vita mia. Dovevano solo passare un paio d’anni perché scoprissi il rock e quanto il dolore avesse parte in quel mondo.

La morte ha sempre affascinato il rock, oppure ne è stata una fonte di ispirazione. Basterebbe citare solo la musica dark e di un artista come Nick Cave, che su scene lugubri ci ha costruito una carriera, o Richard Hell dei Voidoids che negli anni ’70 sfoggiava ai concerti una maglietta con la scritta “Please kill me”: non basterebbe tutta la memoria del server a cui si appoggia Siderlandia per raccontare il rapporto tra morte e rock. Quindi direi di fare il lavoro sporco e parlare dell’album di questa settimana.

È legato anch’esso alla morte, per via della morte – avvenuta poco prima di entrare in studio di registrazione – di alcuni parenti della band, fatto che ha influenzato la scrittura dell’album. Parlo di Funeral, album d’esordio del 2004 degli Arcade Fire. Anche se il nome fa presagire un suono funereo, la realtà è molto diversa: in contrapposizione ai testi, la musica è piena di vita, energica. Sostenuta com’è anche dall’uso di violini, pianoforte, violoncelli, fisarmonica e sicuramente altri strumenti che sto dimenticando. Gli Arcade Fire (che dal vivo arrivano ad essere anche in nove!) rientrano a pieno diritto nella categoria del rock sinfonico. Nato per fortuna o disgrazia coi Beatles dell’album Sergent Pepper… il rock sinfonico ebbe un certo successo negli anni ’70, quando generò un orrore chiamato “Progressive”.

Rabbrividisco solo al pensiero di dischi con canzoni che duravano anche un ora.

Dopo la fine dei ’70 se ne sentì parlare davvero poco di rock sinfonico. Nel caso degli Arcade Fire però non si può parlare di un rock sinfonico come quello del passato: le sonorità virano verso il rock dei primi anni ’80, e gli strumenti classici diventano un forte supporto a quelle sonorità, andando ad esaltare le chitarre ogni volta che queste decidono di essere più aggressive. Succede in pezzi come #Neighborhood 2 (Laika), uno dei pezzi più forti dell’album, o in Wake Up. Certo, questo casino di strumenti suona un po’ barocco o roccocò (a voler citare una canzone dal loro terzo album Suburbs – ma che bravo che sono che faccio anche le citazioni!!!), però non scade mai nel superfluo: ogni strumento suona necessario.

Come ho scritto prima, questo è un album molto influenzato dalla vicenda della morte nel breve periodo di molti parenti dei componenti della band. E i testi, in contrapposizione alla musica così viva, raccontano il senso di smarrimento che questo vuoto ha generato e la necessità anche di imparare a convivere con quel dolore. Come nella conclusiva In the Beackseat, quando cantano : “Alice è morta/nella notte/sto imparando a guidare/da tutta la mia vita/sto imparando.” Ma c’è anche la consapevolezza dei rischi di soccombere al dolore, lo dicono in Wake up: “ se i bambini non crescono/ i nostri corpi crescono ma i nostri cuori si lacerano.”

C’è anche spazio per il dolore della terra natia e per i suoi tanti problemi, che anche da lontano ti feriscono come Ugo Foscolo faceva in A Zacinto, “Hiti mio paese/madre ferita che non vedrò mai/la mia famiglia mi rende libera/ Gettate le mie ceneri in mare.” Quasi come in una seduta psicoanalitica, dopo il dolore deve venire la cura, la presa di coscienza che quel dolore, malgrado tutto, non può essere una scusa per arrestarsi; tutto questo lo cantano nella canzone più bella dell’album, Rebellion (Lies), quando col primo verso dicono “Dormire è arrendersi”. Non è una negazione del dolore cantato nelle canzoni precedenti, ne è anzi il necessario corollario.

Anche per questa settimana la rubrica Perle ai Porci finisce qui, ci vediamo la settimana prossima, se non ci suicidiamo prima…

Mentre scrivevo questo articolo sentivo:

Fleet Foxes, album Helplessness Blues, 2012

Africa Hitech, Do U Wanna Fight,, 93 Million Miles

Gill Scott Heron, Lady Day and John Coltrane, album Pieces of Man, 1971