Cafè Express: un viaggio in treno verso sud, tra corsi e ricorsi storici

di Gaetano De Monte

Se fosse stato un film, il semplice viaggio di un sabato pomeriggio che sa già di primavera, sull’intercity Roma-Taranto, sarebbe stato sicuramente Cafè Express, memorabile affresco consegnatoci da Nanny Loi di un’Italia meridionale che forse in parte è rimasta come allora. Il film racconta la storia del povero Michele Abbagnano costretto a vendere, sperando sempre di sfuggire ai controllori, caffè e affini su un treno espresso che viaggia quotidianamente sulla tratta Napoli- Vallo della Lucania, tutti i giorni, andata e ritorno, in seconda classe fumatori, posto imprecisato.
Quello straordinario ritratto di vita italiana, interpretato da Nino Manfredi, in cui si narravano le giornate sui treni della speranza che ogni giorno da sud a nord caricavano vissuti di vita popolare, ritorna in quello che rappresenta oggi il diritto alla mobilità in Italia, ed in ciò che significa vivere nel profondo sud del nostro Paese.
E’stata la famigerata frase: “cafè, cafè”, pronunciata da un giovane ragazzo dall’accento marcatamente napoletano, salito sul treno alla stazione Termini, a ricordarmi quel film. Ma non solo, anche i vagoni dove si viaggia oggi sono gli stessi del passato: i soliti sedili blu buoni per tutte le stagioni, pieni di pulci, con il marchio Trenitalia, quasi un brand di fabbrica per un’azienda che ogni anno dichiara un fatturato pari a oltre 4 miliardi di euro ed il cui presidente, Mario Moretti, guadagna settemila euro al giorno (benefit esclusi). Ed anche i signorotti di fronte a me in realtà, mi hanno ricordato uno spaccato di vita italiana miserabile e miserevole, riadattabile ai nostri tempi.
Giacca e cravatta, pancetta da burocrate di stato e copia de “ Il Giornale” sotto il braccio, lui; aria annoiata ed aristocratica invece lei. Entrambi imprecanti al solo sentir nominare dallo speaker della stazione Termini, i comuni in cui si sarebbe dovuto fermare il treno, lungo le innumerevoli stazioni di quella via crucis che conduce verso sud. A me invece, quasi diverte ricordare a memoria tutti quei comuni, Formia, Aversa, Grassano, Ferrandina, anche soltanto per una passione personale per la madre di tutte le scienze: la geografia. E poi perché ho deciso di “farmi prendere bene questo viaggio altrimenti non mi passa più”… “Tanto capirai, sono solo sei ore, ritardi permettendo, ovviamente”. Perciò, dico a me stesso che stavolta cercherò di non imprecare sullo stato depravante in cui versano le ferrovie italiane, provando a non pensarci. Magari guardando il paesaggio, scrivendo finchè batteria del pc non ci separi, oppure semplicemente ascoltando gli Smiths e leggendo il Calvino di “se una notte d’inverno un viaggiatore”. Man mano che il treno volge verso Sud però, i miei propositi originari si mescolano a rabbia ed incredulità. Quando incontri comuni come Villa Literno stracarichi di “monnezza” buttata nelle campagne che negli ultimi mesi è stata semplicemente spostata da un lato all’altro dei binari. Quando ritrovi Aversa, e hai la sensazione che anche delle semplici e miti piogge potrebbero far crollare le case costruite abusivamente su terreni che puzzano di rifiuti tossici; quando incontri i paesini sperduti della Basilicata e ti sembra di vivere ed ascoltare ancora le gesta del brigante Carmine Crocco: è allora che pensi alle storie di quel sud dall’Unità ad oggi, a cui ancora sei legato, di cui hai letto molto; ed è allora che pensi che lo stesso Sud, che 150 anni fa era oppresso dalla feudalità e dal baronaggio predatorio, oggi appare compresso, stretto tra vecchi e nuovi notabili da una parte, e vecchi viceré e nuovi gattopardi dall’altra, che ne impediscono il pieno sviluppo non solo socio-economico, ma soprattutto politico-culturale.
Pensi a quel giovane della provincia di Potenza, Marco, seduto affianco a te, che ha studiato per tutto il viaggio, che magari condivide con te le stesse preoccupazioni sul futuro incerto e privo di sbocchi che si prospetta per questo territorio e per la sua popolazione. La sua e la tua storia sono quelle di un vero e proprio esodo di massa che priva il Sud del suo inestimabile capitale umano, composto da giovani istruiti, capaci e competenti. E a quel direttore di banca della provincia di Caserta, seduto dall’altra parte, che impreca – leggendo a scrocco il tuo giornale – sui soldi rubati dal senatore Lusi alla Margherita, ma rimane impassibile quando cerchi di affrontare un ragionamento sulla devastazione ambientale della sua terra. E a quei signorotti dall’accento piemontese, che intanto si apprestano a scendere alla stazione di Napoli, che ritrovi ad inveire non solo contro questo treno dalle così tante fermate, ma anche contro la popolazione della Val Susa che si oppone all’alta velocità, da loro accusata di avere una “visione paesana della storia e del progresso”. Quando ormai stanno per scendere è troppo tardi per provare a spiegargli, che quella gente si oppone semplicemente ad una grande opera che ci costerà diciassette miliardi di euro e che sarà sponsorizzata dalla mafia, un tunnel che specula sulla ricchezza “comune” di una valle dal passato millenario. Quei discorsi così semplicistici stimolano in me un ulteriore segno di frustrazione. Mi addormento e mi sveglio attorniato da una nube rossa, minacciosa. Capisco dove sono.
Stranamente, con soli cinque minuti di ritardo, alle 22.04 il treno giunge a Taranto, nella città che nei primi anni del dopoguerra sarà destinata ad un altro “sviluppo donato”, ad un nuovo “sistema dipendente”, dopo quello targato marina militare dei primi anni del 900: a Taranto nel 1960, si impianterà il siderurgico più grande d’Europa, la grande fabbrica che sarà considerata come la soluzione magica e definitiva di tutti i problemi, di tutti i mali della città, a partire da quello più angoscioso: la mancanza di lavoro. Si scelse la via dello sviluppo subalterno, calato dall’alto, il cui rapporto con il territorio era mediato esclusivamente dagli organi in sede dei partiti di Governo, nel quadro di un implicito patto in virtù del quale l’azienda dà lavoro, col sistema degli appalti, ai clientes di questo o quel potentato locale, e costoro votano secondo coscienza. Un do ut des con una presunta modernità, un emblema del paradigma fordista che, invece, agli albori del secondo millennio, porterà in pochissimi anni Taranto a detenere due primati: quello di città meridionale con il più alto tasso di disoccupazione e quello di città più inquinata d’Italia. Ma questa è un’altra storia. Forse solo una semplice goccia nell’oceano sempre pauroso rappresentato da un’irrisolta questione meridionale. Che è culturale, economica, sociale e soprattutto biopolitica.