No Tav: prove tattiche di criminalizzazione

di Massimiliano Martucci

La lotta del movimento No Tav offre diversi spunti di riflessione sulle tattiche di criminalizzazione di una istanza politica rispetto ad un’altra.
In ordine cronologico sono stati effettuati diversi tentativi volti a screditare, quindi a criminalizzare, un movimento che, per le sue caratteristiche, è uno dei più importanti degli ultimi anni. Anche e soprattutto perché ha le caratteristiche per diventare molto più diffuso di quanto non sia l’area interessata dall’intervento.

Se il movimento fa paura lo si deve far tacere, ma non lo si può fare con la forza fisica perché non farebbe altro che richiamare l’attenzione dei cittadini che finora se ne sono stati buonini nelle loro case – e soprattutto non sarebbe altro che la metafora perfetta di quanto sta facendo lo Stato ai quei territori.

Niente violenza anche perché non è possibile nasconderla, pilotando l’informazione. Tablet, smartphone, citizen journalism e tutte le diavolerie moderne fanno in modo che su un fatto ci siano sempre i riflettori accesi e che la versione ufficiale deve fare i conti con i milioni di cittadini connessi in rete, come ha dimostrato l’episodio tragico della Costa Concordia.

Ma il movimento dei No Tav ha bisogno di essere contenuto, ridotto al silenzio, o al massimo, se non si riesce, bisogna estremizzarlo. Un movimento quanto più è pericoloso per il sistema tanto le strategie messe in campo per delegittimarlo, quindi per estremizzarlo, sono imponenti. L’estremizzazione è una strategia mediatica e comunicativa attraverso la quale si concentra l’attenzione dei media, e quindi della maggioranza dei cittadini, su una piccola parte, magari vivacizzandola un po’. La manifestazioni diventano scontri, i cittadini diventano “quelli dei centri sociali”. Per capire quanto questo accade, basta chiedersi da che prospettiva arrivano le immagini dei tg. Se guardano il corteo da dietro lo schieramento dei celerini, allora è in atto la strategia di depistaggio, di estremizzazione, di criminalizzazione.

La strategia contro il movimento No Tav segna almeno tre passaggi chiaramente riconoscibili. Il primo è la questione di Bobbio: durante la manifestazione del 28 gennaio a Torino, alcuni manifestanti imbrattano un manifesto di Norberto Bobbio e scrivono accanto “Servo!”. Immediatamente la notizia viene ripresa da alcune testate online e la twittersfera italiana inizia il tamtam con l’hashtag #bobbio, in cui si accusava i No Tav di essere “talmente di sinistra da essere fascisti”. Attaccare Bobbio, significava mettersi nelle condizioni di indispettire la parte intellettuale del movimento, o meglio, i possibili fiancheggiatori. Coloro che culturalmente preparati avrebbero potuto fare da sponda alle rivendicazioni della Val Susa. La questione #bobbio è però una bufala, smascherata il giorno dopo da un abile blogger che spiega attraverso un’immagine e un post su tumblr, la verità. L’obiettivo non era Bobbio ma un giornalista de La Stampa.

L’attacco mediatico al movimento aveva come obiettivo la delegittimazione culturale: i fianchi molli degli intellettuali sedotti dalla possibilità di difendere un padre sacro della cultura italiana.

Il secondo attacco è arrivato pochi giorni fa, e aveva come hashtag #pecorella. La storia è quella di un manifestante che stuzzica un carabiniere reso irriconoscibile dalla tenuta antisommossa, affibbiandogli l’epiteto di “pecorella”. Un video che ha fatto il giro della rete e che immediatamente ha scatenato la prevedibile citazione unisona di Pasolini e Valle Giulia. Il movimento No Tav quindi paragonato agli studenti del ’68 e il carabiniere al figlio degli operai. L’attacco questa volta era in direzione della percezione del movimento visto come esperienza legittima dei cittadini, il risultato è stato discreditarlo dal punto di vista del rispetto della legge e dell’onestà. Manifestare è giusto, per carità, ma si lo fa con educazione. Il tocco finale è stato l’encomio solenne al carabiniere, che non ha reagito, un premio per non aver utilizzato il manganello contro le parole del manifestante: “Non è un graduato nè, tantomeno, un veterano dell’ordine pubblico: ma il ragazzo che ieri dietro la divisa antisommossa dei Carabinieri ha sfidato, guardandolo dritto negli occhi, il manifestante che dalle barricate dei No Tav gli urlava contro ogni tipo d’insulto, ha forse ottenuto, senza alzare un dito, molto più di centinaia di lacrimogeni sparati nella Val di Susa in questi mesi per fermare le proteste dei contestatori più violenti” (tratto da qui). L’encomio invece rappresenta l’ammissione da parte dello Stato che la violenza è una delle possibili opzioni e il non avervi fatto ricorso, in un momento in cui poteva essere giustificata (!), merita un premio.

Dopo la parte culturale, quindi, anche il risvolto sociale: quel carabiniere appartiene al popolo più di quel manifestante e la solidarietà andrà a colui che non ha utilizzato la forza, sebbene fosse stato autorizzato. Il carnefice si trasforma in vittima e il suo punto di vista diviene il punto di vista nazionale.

Il terzo, geniale, attacco al movimento arriva direttamente dalla bocca del premier Mario Monti che in una conferenza stampa in cui dichiarava che le ruspe non si fermeranno, si sofferma a parlare di chi non è d’accordo, con la solita calma micidiale. Attraverso le gallerie della Torino – Lione passa la possibilità dell’Italia di uscire dalla crisi, perché saranno l’infrastruttura attraverso la quale il nostro Paese sarà ancora più legato all’Europa. Stare fuori dall’Europa significa andare alla deriva (cfr. incidenti navi Costa). Il risultato è che se in Italia continuerà ad esserci la disoccupazione è colpa del movimento No Tav che blocca le gallerie attraverso le quali passeranno le soluzioni alla crisi. Sarà colpa dei No Tav se in Italia ci saranno tensioni sociali. Una mossa geniale per coinvolgere il ventre molle del Paese che non sa quali sono le motivazioni del sì o del no alla Tav, ma assocerà il movimento alla causa della propria condizione.

Paura, eh?