Chiesa e industria. Breve storia di un matrimonio felice

di Antonio Anteneh Mariano

Quando si fa riferimento alla Chiesa tarantina del secondo dopoguerra non si può prescindere in nessun modo da una personalità: monsignor Guglielmo Motolese. Arcivescovo della diocesi di Taranto dal 1961 all”87, ispiratore della Concattedrale e della Cittadella della Carità, Motolese ha lasciato un segno profondo non solo nella Chiesa e fra i Cattolici della provincia, ma nell’intera nostra comunità. Chi lo ha conosciuto lo descrive come una delle menti politiche più brillanti di quell’epoca, uno dei pochi in grado di esprimere una “visione” un po’ più ampia rispetto alla quotidiana contingenza.
Quando nelle stanze di IRI e Finsider iniziava ad emergere il progetto di un nuovo centro siderurgico da ubicare al Sud (1956), Motolese era Vescovo ausiliare di Taranto (il “titolare” era Ferdinando Bernardi) e delegato arcivescovile per l’Azione Cattolica. Quest’ultimo particolare è importante per due ragioni. L’Azione Cattolica tarantina era stata presieduta fino a non molto tempo prima da Raffaele Leone, che in quello stesso anno divenne il primo sindaco democristiano di Taranto dopo aver conquistato qualcosa come 15 mila preferenze (il 50% dei voti totali della D.C.); Leone nel ’58 venne eletto deputato e, pochi mesi dopo il suo insediamento, presentò un ordine del giorno in sede di discussione del bilancio dello Stato, col quale si chiedeva al governo di fare proprio il progetto del nuovo siderurgico, ormai diventato di pubblico dominio. Il ministro del Bilancio di allora accettò: fu il primo impegno assunto pubblicamente dal governo a favore della costruzione del siderurgico meridionale. Intanto nel 1955 come presidente della Commissione Episcopale per l’Alta Direzione dell’Azione Cattolica Italiana il papa di allora, Pio XII, aveva nominato il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. Come vedremo, il rapporto fra questo potente prelato e il “nostro” Motolese non si esaurì all’interno dell’Azione Cattolica, ma si rivelò decisivo per orientare il futuro arcivescovo di Taranto nella sua personale relazione con l’industria. Nel frattempo lo stesso Motolese, come il suo “discepolo” Leone, si spese per favorire l’insediamento del siderurgico nella nostra provincia. Matteo Pizzigallo, in un saggio del 1986, ricostruisce bene questa vicenda, citando la corrispondenza che il futuro arcivescovo intrattenne con alcuni importanti esponenti politici di spessore nazionale – fra questi, il Ministro per le partecipazioni statali, Mario Ferrari Aggradi, cui Motolese indirizzò una lettera nella primavera del ’59 per sollecitare il governo a realizzare quanto prima la grande opera che avrebbe dato un po’ di respiro all’economia e alla società tarantina. Lo stesso Pizzigallo infatti ha rilevato che una delle preoccupazioni principali di Motolese fosse allora la situazione di profonda difficoltà in cui la nostra città versava a seguito della crisi dell’industria navalmeccanica.
Finalmente, il 20 giugno 1959, il Comitato dei ministri per le partecipazioni statali delibera che il siderurgico si farà e si farà a Taranto. Poco più di un anno dopo, il 9 luglio 1960, Motolese è al fianco dei maggiorenti IRI e Finsider, di politici locali e nazionali, a benedire la prima pietra dello stabilimento.
A questo punto la nostra storia deve fare un breve excursus attorno alla figura del cardinale Siri, cui Motolese restò legato fino alla morte del primo (1989). Siri ha rappresentato, lungo tutta la vicenda del Concilio Vaticano II (1962-’65) il vertice della “destra conciliare”, cioè quell’insieme di posizioni che, in nome della tradizione, si opponevano alle innovazioni che i settori più avanzati della comunità ecclesiastica avrebbero voluto introdurre nel corpo e nell’anima della Chiesa Cattolica; ma non per questo i seguaci di Siri perseguirono l’estrema via della rottura (come fece invece Marcel Lefebvre, la cui comunità ancora oggi celebra messa in latino e segue l’impostazione teologica ed ecclesiale del Concilio di Trento): rimasero nel Concilio e cercarono di condizionarlo (alla lunga sembrano essere riusciti nel loro intento se si pensa che Joseph Ratzinger, all’epoca giovane prete attestato su posizioni progressiste, oggi non solo ha recuperato concetti e atteggiamenti tipici del “tradizionalismo”, ma ha persino avviato un dialogo con i seguaci di Lefebvre, scomunicati nel 1988 da Wojtyla).
Nonostante questa sua impostazione dottrinaria, Siri fu tuttavia molto attivo sul piano sociale – e, in particolar modo, nei rapporti col mondo dell’industria. Nello stesso anno in cui veniva elevato al rango di Arcivescovo titolare di Genova, diveniva anche consulente morale dell’UCID (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti). Si trattava in sostanza di un’associazione che puntava a indirizzare gli imprenditori e i dirigenti industriali secondo i precetti della Chiesa. Gianlupo Osti, all’epoca giovane dirigente della Cornigliano (la società che gestiva il siderurgico di Genova prima della nascita di Italsider), nel libro-intervista curato da Ruggero Ranieri racconta una delle attività che il Cardinale svolgeva in quel contesto: periodicamente chiamava a raccolta l’intero management dell’azienda e impartiva lunghe lezioni-conferenze sul “modo cristiano” di gestire l’impresa. Puntualmente il laico e anti-conformista Osti si assentava.
Tuttavia si trattava di momenti dal significato più “liturgico” che sostanziale, nel senso che si cementava un’alleanza fra Chiesa e vertice industriale che aveva ben solide basi. Siri fu infatti il creatore della figura del “cappellano di fabbrica”. Era un’epoca cruciale per l’economia e per le relazioni industriali in Italia. Il boom non era ancora esploso e le ristrutturazioni aziendali dell’immediato dopoguerra – perseguite con particolare fermezza proprio dal vertice del gruppo siderurgico pubblico, la Finsider – avevano indebolito il movimento operaio. Fra il personale “esuberante” licenziato molti erano i soggetti sindacalizzati, che avevano fatto la lotta clandestina e poi la Resistenza – e in quella fase turbolenta avevano contribuito a salvare fisicamente buona parte del patrimonio industriale del Nord-Ovest dagli attacchi e dall’avidità dei Nazisti (lo stesso stabilimento di Cornigliano fu smontato pezzo pezzo e inviato in Germania). Nel dopoguerra non solo queste persone vennero mandate a casa, ma la grande industria (pubblica, in particolare) decise di impostare in modo nuovo le relazioni industriali: da una parte, iniziò la sperimentazione di metodi di avanguardia importati – assieme agli impianti che servirono alla Ricostruzione – direttamente dagli USA (la Cornigliano fu una delle prime aziende italiane a insediare un ufficio del personale: se si pensa che quella alla FIAT era l’epoca d’oro delle schedature degli operai da parte della dirigenza, ci si rende conto del portato dell’innovazione); dall’altra però si diede luogo ad un’alleanza strettissima con le istituzioni del territorio – Chiesa in testa – per il controllo sociale dei lavoratori. In sostanza le strutture del mondo cattolico – non soltanto le parrocchie o la Curia, ma anche le associazioni, su tutte l’Azione Cattolica – dovevano garantire sulla “mansuetudine” sindacale e politica del gregge dei fedeli-lavoratori. D’altronde la stessa figura del cappellano di fabbrica mirava a contrastare quella, più antica, del “prete-operaio”; la differenza fra i due ruoli era abissale: se quest’ultimo era un lavoratore come gli altri – sensibile alle ragioni sindacali dal momento che condivideva la condizione degli operai –, il primo continuava a fare semplicemente il prete – e quindi spesso era un concorrente “ideologico” di sindacati e partiti di sinistra. Il “combinato disposto” fra i principi delle “relazioni col personale” e il controllo clericale del lavoro doveva servire a ridimensionare il ruolo del sindacato: l’azienda e la Chiesa avrebbero tutelato il lavoratore senza che questo sentisse più il bisogno di rivolgersi ai sindacati – e tanto meno alle forze politiche.
Questo modello venne importato a Taranto con l’insediamento dello stabilimento. Uno degli artefici di questo “trasferimento” fu proprio Motolese. C’era infatti da gestire la delicatissima operazione dell’assunzione della manodopera del nuovo centro – momento tanto più complicato in quanto, a differenza dell’area di Genova, nessuno all’epoca da queste parti aveva cognizione di cosa fosse la produzione siderurgica. Avere lavoratori “fedeli” e disposti a seguire le disposizioni dell’azienda passo passo – sia nella fase di formazione che nel successivo momento di entrata in esercizio degli impianti – era quindi fondamentale. Il rapporto che venne così a instaurarsi fra i dirigenti e i tecnici della neonata Italsider – quasi tutti provenienti dalla ex-Cornigliano, fra cui lo stesso Osti, cui venne affidata la responsabilità suprema nella gestione dei lavori di realizzazione – fu di “dirimpettismo istituzionale”, per dirla con Pizzigallo. Anche a Taranto venne introdotta la figura del “cappellano di fabbrica”, la cui formazione fu curata da un importante convegno su “Pastorale e industria”, organizzato da Motolese nel 1964. L’apice di questo rapporto privilegiato fu la celeberrima messa di Natale del 1969, quando Paolo VI in persona entrò nel siderurgico per celebrare la funzione. Da allora in avanti però i rapporti iniziarono a mutare. Decisivo fu il “raddoppio”, che spalancò le porte della fabbrica a migliaia di giovani politicizzatisi nel corso dell’“autunno caldo” e del clima di effervescenza politica che caratterizzò gli anni a cavallo fra i decenni ’60 e ’70. Basandosi su queste nuove leve il sindacato – intanto al livello dei metalmeccanici si era superata la differenziazione fra CGIL, CISL e UIL ed era nata una sigla unitaria, la FLM – conquistò notevole potere contrattuale e certe dinamiche di controllo sociale andarono viceversa ridimensionandosi.