“Habemus hominem”… si, ma quale?

di Salvatore Romeo (’85)

Alzi la mano chi durante un’interrogazione non ha mai cercato di nascondersi. Di volatilizzarsi. Sparire mentre il truce sguardo del professore scrutava il registro.
Ricordo la ricerca estenuante del nulla; il collo chino, spronato a raggiungere inclinazioni degne di un contorsionista, il respiro affannoso e sempre più rallentato. E la maggior parte delle volte avevo anche studiato! Troppo forte, però, l’”ansia da prestazione” che attanaglia i tuoi sensi quando siamo attesi da un giudizio, da una valutazione. O quando avverti il peso delle responsabilità di un “bel voto” che, come un macigno, si poggia sul tuo stomaco bloccandone la digestione. Ma era pur sempre un’interrogazione liceale: un suo cattivo esito avrebbe portato, al massimo, ad un pomeriggio di auto-flagellazione punitiva; ad una masochistica “maratona” di derivate o verbi latini.
Vi siete mai chiesti quali siano invece le sensazioni o le emozioni di chi deve accettare incarichi di responsabilità sociale? Cosa penserà un politico alla sua prima elezione a sindaco di una città? Od un responsabile delle “risorse umane” costretto dalla dirigenza di una grande multinazionale (magari siderurgica) a licenziare migliaia di lavoratori? Che reazioni fisiologiche subisce un vescovo quando a seguito di un’imprevedibile votazione viene eletto Papa?
A quest’ultima domanda ci risponde Nanni Moretti, che attraverso il suo film “Habemus Papam” ripercorre, con un’ attenta analisi emozionale, le reazioni del mite cardinale Melville a seguito della sua elezione a Papa durante un conclave molto combattuto. L’elezione del Papa, come del resto ogni altra elezione, è uno scontro tra diverse fazioni, ognuna delle quali rappresentante interessi e ragioni di precise realtà sociali e politiche. Troppo importante da lasciare al caso o alla “volontà di Dio”, l’investitura di un cardinale alla somma carica Papale per trovare immediatamente una convergenza o una mediazione su di un preciso “candidato”. Si, un candidato. Sebbene non sia possibile un’esplicita realizzazione, l’elezione di un Papa è vincolata da candidature e candidati che si contendono la carica di guida spirituale di tutti gli uomini della Terra, fedeli e “non-ancora”.
Date queste premesse è improbabile attendersi un’elezione a sorpresa di un candidato totalmente avulso alla “corsa per il titolo”: ma il cinema e la fantasia tutto possono e dunque “sia fatta la volontà divina”! Il cardinale Melville tutto si sarebbe aspettato alla vigilia del conclave, anche l’elezione di un Papa sud-americano, al massimo africano. Mai avrebbe pensato ad una sua elezione, lui che il prete neanche voleva farlo.
Il film incomincia con le immagini del funerale del Papa appena scomparso (non è presente nessun chiaro segno ma dovrebbe trattarsi di Giovanni Paolo II) e dell’imminente conclave che eleggerà il suo sostituto. La folla, oceanica come da tradizione, si ritrova dopo due settimane tra le colonne del Bernini cantando ed inneggiando ad una rapida elezione del nuovo pontefice: troppo forte l’emozione di assistere alla fumata bianca. Ma questa speranza rimane disattesa: tarderà ad arrivare. All’interno della Domus Sanctae Marthae i cardinali, per spezzare uno stallo apparso irrisolvibile tra i due “superfavoriti” (dalle quote dei bookmakers inglesi ), decidono di votare in massa il cardinale Melville. Già, il cardinale Melville che mai avrebbe immaginato di essere incoronato Papa. Il vero film inizia qui.
Il personaggio-chiave della vicenda è sicuramente il Pontefice. O meglio del non neo-pontefice. Si perché sul balcone, per la proclamazione e la benedizione “urbi et orbi”, il prelato non ci è mai arrivato. Una crisi di panico. Per tentare una rapida soluzione, prima volta nella Storia della Santa Sede viene contattato “il migliore psicologo di Roma” (Nanni Moretti) , dunque un esterno. Ateo per giunta. L’unica conseguenza di questa soluzione è un a ferma presa di posizione del cardinale che, sentendosi stretto nella morsa amichevole e caritatevole dei vescovi suoi colleghi, troppo preoccupati di una possibile sua rapida successione, fugge dal Vaticano sfruttando l’unica disattenzione della scorta. Da qui nasce quella che , parafrasando Silone, può essere definita “l’avventura di un povero Cristiano”. L’uomo Melville infatti, si trova ad essere investito da un destino non cercato, di cui non si sente degno. La sua dignità è più affine all’accezione latina della ”dignitas”: merito, valore, capacità. Proprio la capacità è ciò che il cardinale non si riconosce; la capacità di essere condottiero e non condotto, traghettatore di milioni di fedeli che nella sua figura auspicano un punto di riferimento. Ma la sua vita non gli appartiene più. Lo capisce in fretta. Convinto ormai di rifiutare l’investitura ”divina”, incontra il segretario di stato, comunicandogli la notizia. Crede sia fatta. Lo scoglio più duro è superato. Ora è un uomo libero. Ma con un complotto ordito dallo stesso Segretario Vaticano, Melville viene catturato in teatro (sua vera passione), riportato in Vaticano e preparato per la proclamazione ufficiale.
Ma mentre il Mondo è in festa per il ritorno del “figliol prodigo”, dall’alto del balcone che affaccia su piazza San Pietro, otto secoli dopo Celestino V, un altro Papa rivelò tutta la grande potenza dell’uomo attraverso una singola frase: “No grazie”.

Il film quindi umanizza la figura del Pontefice, svela l’interna contraddizione fra le aspettative di un uomo comune e gli insostenibili doveri correlati alla carica di Sovrano della Chiesa Cattolica. Ma ad uscirne forse ancora più stravolte sono le figure dei cardinali. Man mano che la vicenda si snoda questi perdono tutta la loro austerità e si rivelano a loro volta in un’umanità quasi ridicola. A questo punto però il film manifesta un elemento problematico. Mai si fa riferimento a questioni di potere – o anche vagamente politiche. Se il papa è un “uomo come tanti”, cui la vocazione pare essere stata imposta da chissà quale misterioso trauma d’infanzia, i cardinali sono descritti come “bambinoni” sicuramente inadeguati al ruolo che ricoprono; o comunque a loro volta sovrastati da quest’ultimo, al punto che si lasciano andare volentieri all’“intrattenimento” che lo psicologo inventa per rendergli meno estenuante l’attesa del momento in cui il cardinale Melville accetterà finalmente di presentarsi ai fedeli. E le loro reazioni disperate di fronte al “gran rifiuto” finale riflettono in effetti la loro incapacità politica. Insomma, è una chiesa allo sbando quella descritta da Moretti. E l’invito che egli sembra lanciare è al recupero di quei valori “umani”, schiacciati dalla liturgia e dalla gerarchia, ma pur sempre presenti nello stato maggiore del Cattolicesimo. E’ legittimo chiedersi a questo punto quanto siano realistiche questa analisi e questa prospettiva. La Chiesa è davvero priva di un gruppo dirigente in grado di esprimere una leadership forte e persino intransigente su certe questioni?
L’ultimo Conclave (quello vero) sembrerebbe dimostrare esattamente il contrario. E’ stato eletto Papa il più fidato collaboratore teologico di Wojtyla: l’uomo che negli ultimi anni di pontificato del Polacco ha svolto un ruolo decisivo nel governo della Chiesa. Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio) ha dovuto occuparsi di alcune questioni lasciate irrisolte dal Concilio Vaticano II: dallo scisma degli ultraconservatori al dialogo ecumenico con le altre confessioni cristiane. Tutte cose che Ratzinger ha gestito in maniera spregiudicata: apertura nei confronti di tutti, a condizione che riconoscessero la supremazia della sede romana. Insomma, una strategia volta a consolidare il potere della Chiesa Cattolica nell’ecumene cristiana. Allo smaccato proselitismo di wojtyliana memoria, Ratzinger continua a preferire una “guerra di posizione”. Opera che indubbiamente chiama in causa tutte le capacità diplomatiche accumulate dalla Chiesa in duemila anni di Storia (ricordiamo che si tratta dell’istituzione politica più antica ancora esistente).
Ma prescindendo da considerazione di ordine storico-politico, il “vizio” di Moretti risiede in una visione più che ingenua della natura umana. Credere che un uomo possa passare tutta la sua vita all’interno di un’istituzione senza assumerne codici e stili di comportamento; che possa scalarne la gerarchia rimanendo tuttavia “incontaminato” dalle pratiche che il potere impone; che, giunto all’apice di quella struttura, non arrivi a identificare il proprio interesse con quello della comunità a cui ha dedicato la sua intera esistenza… tutto questo non è utopistico, ma mistificatorio. Forse alla base c’è una visione “facilona” del mondo, che tanto va di moda negli ambienti dell’intellighenzia di sinistra di cui Moretti è il Papa incontrastato. Quel concetto facile facile per cui il potere sarebbe una sorta di impalcatura montata sulla vita degli uomini e che tutti subiscono in maniera più o meno uniforme. Forse nel suo tentativo di fare il verso anche alla psicoanalisi Moretti ha voluto restituirci una parodia del Freud de “Il disagio della civiltà”, ma questo gioverebbe solo al narcisismo dell’autore. Il potere è qualcosa di molto più “incarnato” e molto meno distante dalle aspettative di tutti noi.

Se ci domandiamo quale sia, alla fine dei conti, il valore di “Habemus Papam” la risposta che viene da dare è: un capolavoro di ironia. Quest’ultimo termine andrebbe però inteso in senso etimologico, come “distacco”. L’autore guarda dall’alto i personaggi, con la convinzione di saperla più lunga di tutti: di cardinali infantili e psicologi superbi; e alla fine sentenzia: “Habemus hominem!”. Beh, ci perdoni il caro Nanni se noi restiamo fedeli al vecchio Diogene. Che continuò fino alla fine a cercare l’uomo: nudo (di sovrastrutture) e alla luce sempre più fioca del lumino (della sua ragione).