Poesia fra le fabbriche

di Salvatore Romeo (’85)

Per quanti sono intenti nella lettura di questo articolo, è ancora forte l’eco del concerto del “ primo maggio” in piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Quello che, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbe essere un tentativo di riavvicinamento delle sigle sindacali ai giovani lavoratori e non, si trasforma inevitabilmente in uno dei tanti eventi che ci allietano (?) interminabili pomeriggi domenicali.
L’ idea di un “concertone” gratuito, nasce nel 1990 con l’obiettivo di festeggiare la giornata dei lavoratori e rivendicarne la sicurezza occupazionale e salariale. Viste tali premesse, quale miglior mezzo se non questo mega “carrozzone” in cui presentatori emarginati e artisti strapagati, spesso del tutto avulsi alle dinamiche lavorative, tentano di rastrellare consensi ed applausi dalle migliaia di giovani in delirio? (Un appunto a questi ultimi: CGIL non vuol dire “Centro Giochi Il Lavativo”)
Mentre vedo alternarmi le urla dei ragazzi in piazza ed i sorrisi tirati dei massimi dirigenti nazionali dei sindacati, mi torna in mente un libro di Cesare Pavese letto tempo addietro, dal nome molto evocativo: “Lavorare stanca”. Sono necessarie alcune premesse. Scrivere su di un componimento poetico è sempre molto difficile: troppo personale infatti il trasmettere emozioni, sensazioni ed immagini senza correre il rischio di scalfire messaggi dal corpo forte ma dalle ali deboli come quelle delle farfalle.

“Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio…”

Così si apre la raccolta “Lavorare stanca”, con quelle colline che tanta importanza hanno nell’opera di Pavese. La realtà che si legge in questa silloge è fortemente contrastante, il vocabolario è ripetitivo, spesso dialettale, i temi sono la città e la campagna, gli uomini e le donne, la terra e il sangue… ma da tutto questo amalgama di elementi quello che risulta è un poema denso, dalla struttura forte, compatta.
Le figure cittadine che appaiono nelle liriche sono le prostitute di una Torino, che non è soltanto la Torino della Fiat

“Su un fondo di fumo
una faccia di donna protesa a sorridere
e un idiota leccarla con gli occhi parlando”;

poi c’è l’ubriaco, il senza tetto morto in strada.
La campagna invece ha qualcosa di selvaggio, la notte in particolare

“Nella notte la terra non ha più padroni,
se non voci inumane”

è il luogo della corporalità, del contatto viscerale con la natura, a volte benigna, ma spesso spietata.

“Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto”

E’ una campagna che non è solo e necessariamente “Langa”, ma tende a trasfigurarsi in dimensione mitica e primordiale; un “Io” che rimane distinguibile, nella propria appartata estraneità e nell’anelito amoroso e fantastico, pur se mimetizzato nel racconto di vicende altrui.
La stessa campagna , però, spesso diviene vettore di sofferenze e malinconie che lasciano un senso di malessere esistenziale; in un verso della poesia “Disciplina” la fatica dei lavoratori esplode triste come un cupo frastuono :

“i lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per la strada… La città ci permette di alzare la testa
a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo”

E’ nella poesia che da il titolo alla silloge che si può suggere tutto il l’aspro messaggio di Pavese:

“Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo che passa non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato che hanno fatto altri uomini
dalle mani indurite
come sono le sue.”

La solitudine dell’uomo che rinnega la sua condizione di “obsolescenza umana” in virtù di un unione di coppia da scovare, di una donna da convincere a seguirlo. Per non esser più soli.