E se non fosse colpa del cavallo (storie di sopravvivenza alimentare)

di Giuseppino Pittalis

Una delle mie preoccupazioni maggiori ultimamente, ogni qualvolta sentivo il telegiornale, è stata quella di sapere che fine avesse fatto il cavallino che, periodicamente, vedevo trottare e scarrozzare i bambini nel piazzale antistante un noto ipermercato tarantino dalle parti di Paolangeles.

Debbo dire che quel ciuciariello mi stava assai simpatico, non tanto per il fatto che portasse i bambini sulla groppa, ma per il fatto che lo stesso mi sembrava proprio l’incarnazione dell’operaio proletario medio, di quello insomma che si fa il mazzo per arricchire il padrone e si accontenta di poco o niente perchè di meglio non ha.

Forse se avesse diritto al voto nell’italica repubblica delle banane voterebbe per protesta il suo amico insetto che fa cri cri, quello dal verso che la lingua italiana nell’atto dell’emissione identifica con il verbo frinire, il Grillo insomma.

Avevo intenzione di capire comunque quale fosse la sorte capitata al mio amico animale e quale occasione migliore se non accompagnare mia moglie a fare la spesa?
Armato di tutto punto, indossata la mimetica e il casco di ordinanza sono partito di sabato mattina alla volta della cattedrale del consumismo, ben consapevole che il prezzo da pagare per quella tortura sarebbe stato niente in confronto al fatto che avrei trovato lì il quadrupede operaio.
Arrivato nel piazzale, dopo una estenuante ricerca del parcheggio trovato praticamente nel paese vicino e una buona mezz’ora aspettata per trovare un carrello, che sfiga ha voluto avesse le ruote bloccate, mi sono avviato verso l’entrata dove ho fatto l’amara scoperta.
Il cavallino non era lì, dove lo vedevo di solito!!!!!!
Vuoi vedere che a questo punto è proprio lui il cavallo che hanno trovato nelle lasagne o negli hamburger, come diceva la televisone?
Unico modo per scoprirlo era fare la spesa e stare attento a quello che compravo leggendo l’etichetta sui prodotti, sperando di non leggere il suo nome stampato.

La domanda che è sorta spontanea nella mia testa entrando è stata: “chi è che, frequentando piccoli e grandi supermercati, ha mai immaginato quale è la storia del prodotto che è dentro a quella colorata scatoletta, una storia magari iniziata tanto tempo prima e in posti lontani?”

Quanti chilometri ha percorso quel cibo passando di mano in mano? Quanta cultura del posto dove è prodotto è insita in quell’alimento?

Quanto un cibo comune abbia cambiato l’economia del mondo è un problema che nessuno mai si è posto probabilmente. Un esempio: la patata donata, secondo la tradizione mesoamericana, agli uomini dal dio Pachamac che secoli dopo, giunta in Europa, rivoluzionò sia il modo di mangiare sia l’economia del vecchio continente.
Altro esempio più aromatico, il caffè che poi è diventato il simbolo della napoletanità nel mondo insieme alla pizza , arrivato a noi grazie al fatto che nacque a causa dell’ira del dio etiope Waqa, particolarmente incazzato in quel periodo storico.

Per non parlare delle implicazioni poi, di alcune interpretazioni teologiche, che nascono nel momento in cui portiamo il cibo alla bocca, che rafforzano l’idea (come nel caso della tradizione rom riguardo il pane dal cui impasto Dio creò gli uomini) e che sostengono che mangiare ci fa avvicinare a Dio.

Inconsapevolmente quindi mangiando, mettiamo in bocca la storia, facciamo si che i nostri sogni si arricchiscano, che i nostri pensieri si affinino.

Insomma tutto sto casino per un piatto di pasta e io mai ci avevo pensato?

Forse perchè sono molto prosaico e materialmente ho sempre fame e non mi basterebbe, come dice mia mamma “un passo di prato”, o come il mio amico “ è meglio farmi un vestito che invitarmi a pranzo!”
In realtà io, al massimo, accostavo il cibo ad una frase di un tedesco, un filosofo che mi ha rotto abbastanza le palle al tempo dell’università e che si chiamava Ludwig Feuerbach; nella sua vita, oltre a dire in continuazione che Hegel era stronzo e che il suo pensiero era sbagliato a prescindere, teorizzò con grande gioia dei vegani contemporanei, che di quelle parole hanno fatto il loro manifesto: cioè “ l’uomo è ciò che mangia”.

Una visione in divenire di quello che sono io quindi, visto che a furia di “pizze ca pummarola” e “marenne atomiche”, sono diventato in tempi non sospetti la cavia della dottoressa Tirone.

Ma per me diversamente magro la cosa che più interessava in quel momento era capire il cavallo dove stava e quindi, dopo aver chiesto ad un commesso incazzato nero perchè aveva appena saputo di essere stato messo in ferie forzate per tutta la settimana successiva ( si perchè anche in quel grande ipermercato tarantino di Paolo VI non se la stanno passando tanto bene, dal punto di vista lavorativo) dove fossero i banchi surgelati sono partito in quarta come Mortadelo e Filemon (visto il tema alimentare), i due investigatori pasticcioni inventati da Francisco Ibanez, a cercare notizie dietro i barattoli.

In un’etichetta ci sono scritte un sacco di cose ma fondamentalmente, e a seconda della categoria merceologica, troveremo la lista completa dei prodotti, la tabella nutrizionale , la scadenza, le modalità di conservazione e l’origine del prodotto, che in sostanza è il nome di chi è che lo produce. Alcune caratteristiche poi per legge sono necessariamente riportate: nell’ordine sono i termini di scadenza, i lotti di produzione e i quantitativi al netto e al lordo, cosa che cercavo di spiegare a colei che avevo accompagnato a fare la spesa, e che giustamente spazientita, decideva di mandarmi a quel paese e andare dal parrucchiere, cosa che a me che sono scarsamente crinito e seguace di Sinesio di Cirene, mi dava alquanto fastidio.
Dovendo io fare a quel punto la spesa, decidevo di concentrarmi su cose utili e di sicuro affidamento e decidevo di partire dalle uova.
La prima sorpresa l’avevo nel verificare che le uova (confezione da 6) a marchio del supermercato costassero 1,63 €, prezzo decisamente in linea con il mercato. Una confezione di colore diverso, non a marchio, posizionata lì vicino, nell’area dei primi prezzi, invece costava 0,99 €. Leggendo bene l’etichetta ci si poteva rendere conto che le uova erano della stessa grandezza (e non ci voleva la prova e l’esperienza di Nicol Minetti per verificare il calibro), venivano tutte prodotte da Eurovo, il luogo era lo stesso, il lotto di produzione e la scadenza identiche. Come dire alla gallina: ti fai sempre lo stesso mazzo tanto, ma alla fine il tuo culo vale in maniera diversa. Il tuo culo insomma è borghese o proletario a seconda di come ti incarto il prodotto e di dove lo vado a posizionare, in modo da prendere per fesso chi lo paga di più.

Messe le uova nel carrello, non volendo mangiare pasta e volendo mantenermi leggero, decidevo di acquistare del riso e visto che oramai il sistema più o meno lo avevo capito, mi ero messo a leggere dietro i cartoni del riso.

Ed anche lì non sono mancate le sorprese, visto che il riso di quell’insegna della grande distribuzione veniva prodotto e venduto dalla stessa identica azienda, con lo stesso cognome di quel tipo amico del Berlusca che il sabato sera, dopo aver fregato i soldi agli italiani quando era parlamentare, continua a rompere l’anima con un’improbabile corrida televisiva insieme alla Maria nazionale e al fratello di Mastro Lindo. Chiaramente, tra i due, il prezzo è un abisso, la confezione uguale e quindi la scelta gioco forza, a parità di qualità, si è orientata verso il prodotto di casa.

Ma, a questo punto, dovevo pure bere e visto che l’acqua non la uso nemmeno per lavarmi e una birra non deve mai mancare, eccomi a fare lo slalom con il carrello, che oramai si era piantato a fare gli slalom negli scaffali del reparto bibite. La birra deve essere buona e fresca e principalmente Raffo, ma, ogni tanto, devi pure cambiare e, incuriosito da quello che scoprivo, andavo direttamente alla tre/quarti della cooperativa rossa. Risultato: la birra la fa la Pedavena ed il prezzo è di gran lunga inferiore. Un cartone intero nel carrello, perchè di questi tempi “drink to forget” e passa la paura!

Ma ci volevano i bicchieri, altrimenti se poi bevevo “a canna” tutti mi avrebbero detto, non a torto, che sono un gran cafone. Ma lì la cosa si è complicato un po’, perchè lo stesso bicchiere veniva offerto in tre modi differenti: a marchio della casa , a marchio del supermercato e, come primo prezzo, con la busta con la monetina gialla. Stesso produttore e stabilimento, plastica uguale, spessore del bicchiere identico. Prezzo? Dai 2,30 si passava ad 1,60 e si scendeva a 99 centesimi. E quindi che mi compro? Chiaramente il primo prezzo!

Ma dopo tutta questo faticare, mi era venuto un certo sommovimento dalle basse vie, insomma un ciglio di panza che mi ha fatto venire in mente il risultato di un eventuale processo entropico di trasformazione delle derrate alimentari ingerite.

Insomma non mi potevo scordare la carta igienica: detto fatto. La carta igienica la fa per quella catena la Kimberly. Insomma la carta della cooperativa e la Scottex sono la stessa identica cosa.
Il mio culo rimane sempre lo stesso e quindi via con i maxi rotoli!
Felice di aver risparmiato e di aver fatto la spesa, rimaneva però sempre il dubbio di che fine avesse fatto il cavallo e sinceramente di andare a vedere se fosse finito in una torta dell’Ikea, non è che ne avessi tanta voglia. Alla fine le lasagne neanche mi piacciono quindi poco male, pensavo tra me e me. Ma all’uscita ecco la sorpresa: il cavallo era lì nel piazzale e stava lavorando come al solito, anzi di più, perchè pure a lui era stato fatto un contratto di solidarietà e, vista la crisi, doveva lavorare di più e a nero, per pagarsi le rate della fornitura di biada proteica che aveva ordinato da un commerciante disonesto..
Ero contento e rincuorato, da un lato perchè almeno lui si era salvato da una cattiva sorte, ma dall’altro invece ero incazzato nero perchè oramai avevo riempito il carrello, che si era del tutto finito di scassare e lo dovevo portare fino in Culonia per raggiungere la macchina. Ma, almeno, avevo fatto la spesa e sapevo che lì ci sarei tornato fra un anno per comprarmi il panettone, che nel frattempo avevo scoperto essere prodotto non dal forno di nonno Peppe che sta a Napoli, ma dalla Maina, perchè le tre Marie avevano deciso di cambiare attività imprenditoriale e si erano messe a fare le fornitrici di ragazze ad un signore di Arcore!……

Consigli di lettura:

Un buon libro sulle implicazioni tra cibo e trasformazioni culurali è “Totem e Ragù. Divagazioni napoletane” scritto dall’antropologo Marino Niola ed edito da Pironti nel 2003

I diversamente pettinabili farebbero bene a leggere “Elogio della calvizie “ di Sinesio da Cirene. Scoprirebbero molte cose a loro favore.

Leggere l’etichetta invece fa bene sia alla salute che al portafogli, ed è gratis.