Sono le 9: 15 di un martedì 17 di uno sciagurato novembre quando apprendo la notizia. Un incidente mortale – un altro – nel reparto agglomerato. Un operaio di una ditta dell’appalto. Cosimo Martucci il suo nome, ma questo lo apprenderò solo in seguito.
Il passaparola in fabbrica diventa virale nel giro di pochi minuti. Le domande sono sempre le stesse: chi è? Quanti anni ha? Se ha figli. Si ipotizzano le responsabilità e si ragiona sulla cultura della sicurezza. Le attività si fermano quasi del tutto in attesa della proclamazione di sciopero. Ancora non so il nome del malcapitato collega che mi passa sotto gli occhi il primo comunicato. La cosa mi disturba, mi sembra ancora troppo presto, ma lo leggo, nella speranza di trovarci il nome del defunto. Non trovo il nome, né gli anni: nulla di lui; lui è stato già cancellato . Quello che trovo sono concetti – i soliti, legittimi o meno -, di cui in quel momento avrei fatto volentieri a meno: sgomento, dolore, analisi, Ilva in perdita e l’immancabile “chiudiamo la fabbrica!”. Mi arrabbio e mi chiedo cosa c’entri una morte sul lavoro col fatto che l’Ilva inquini, che sia in perdita e che sia sotto controllo statale; perché quando era in attivo non si moriva? Poi i comunicati di questo tono aumentano, con la rivendicazione comune di chiudere la fabbrica. Allora mi calmo e rifletto…
Paola Clemente, bracciante agricola di San Giorgio Jonico, è morta il 13 luglio mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria. Accasciatasi al suolo sopra madre terra e sotto lo sguardo di fratello sole. Morta probabilmente per il caldo e per la fatica. Una storia macabra venuta alla luce grazie ad una denuncia della Flai-Cgil Puglia, che ha portato all’apertura di un’inchiesta e alla disposizione dell’autopsia.
Cosimo Martucci e Paola Clemente. Operaio e bracciante. Due storie che ci ricordano che in Italia si muore ancora di lavoro. Nelle fabbriche – inquinanti e non – come nelle campagne; a Bolzano come a Taranto; a vent’anni come a cinquanta.
A questo proposito i dati dell’Inail sono preoccupanti: da gennaio ad agosto 2015 i morti sul lavoro sono 752 rispetto ai 652 contati nello stesso periodo del 2014. Un aumento di quindici punti percentuali. Era dal 2006 che non si aveva un peggioramento dei dati sui caduti sul lavoro. Un campanello d’allarme estremamente preoccupante, che contribuirà a farci sprofondare ulteriormente nel confronto con i dati degli altri paesi europei. I comparti più colpiti risultano essere nell’ordine: il settore delle costruzioni, il manifatturiero e, più distaccato, le lavorazioni di magazzinaggio. I dati Inail tuttavia tengono conto dei soli soggetti assicurati dall’Istituto, escludendo di fatto dalle statistiche migliaia di lavoratori – cosa che rende ancor più inquietanti i suddetti numeri. I dati sono inequivocabili: si muore ogni giorno di lavoro. Se dovessimo reagire chiedendo la chiusura di ogni luogo dove muore un lavoratore, dovremmo chiedere probabilmente la chiusura dell’Italia intera.
L’Ilva, pur mostrando una situazione di evidente peggioramento (sei morti dal 2012) – dovuto alla difficile fase di transizione e instabilità che sta vivendo, unite alla complessità e pericolosità delle sue lavorazioni -, si incastra perfettamente nella fotografia dei dati nazionali.
Dare soluzioni false a problemi veri può essere utile per sfogare la rabbia, ma ci allontana dalle vere cause che alimentano il problema stesso. Forse la soluzione è altrove. Forse le ultime leggi sulla sicurezza, sul lavoro, sulle pensioni, il precariato diffuso, lo smantellamento dei diritti, l’abbassamento dei salari e la disoccupazione dilagante, altro non hanno fatto che peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori e di chi per vivere può contare solamente sul proprio cervello e sulle proprie braccia. L’aumento delle morti sul lavoro non è altro che una naturale conseguenza di quelle politiche. Un altro tassello che indica la regressione del nostro paese e il peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte dei suoi cittadini. A Taranto sono peggiorate quelle degli operai dell’Ilva tanto quanto quelle di chi in l’Ilva non lavora, e ne rivendica la chiusura. A dispetto di tutte le divisioni, una cosa che ci accomuna.
Mi chiedo: perché quando muore un operaio si invoca la chiusura delle fabbrica, mentre quando muore un bracciante non si invoca la chiusura delle terre. Forse perché le terre non si possono chiudere. Un po’ come le fabbriche.