Gli occhi sorridenti di Vincenzo sono contornati da rughe sottili ed eleganti che si distendono con la stessa delicatezza e pacatezza con cui tenta di raccontarmi la sua storia. Le sue mani, levigate dal tempo, richiamano immagini nitide e reali: il lavoro nei campi alle prime luci dell’alba, il profumo ineguagliabile dell’erba fresca dopo una pioggia estiva, le venature dei muretti a secco e il lamento stridulo ed incessante del suo allevamento di caprini ridotto a mattanza. La storia di Vincenzo Fornaro è l’emblema di una Taranto violentata ed umiliata, ma è anche un esempio di riscatto e di rinascita. La punta dell’iceberg del disastro di diossina provocato dal centro siderurgico più grande d’Europa ha travolto la masseria Fornaro, situata in contrada Carmine, distante pochi chilometri dalla zona industriale.
La regione Puglia, con la deliberazione n. 1321 del 15/07/2008, a seguito delle rilevazioni di Pcb (policlorobifenili) e diossina sugli animali e sui prodotti di una ventina di aziende di allevamento situate in un raggio di 5 km dal polo siderurgico, ha disposto l’abbattimento di 1200 animali appartenenti a sette famiglie di allevatori, tra cui i Fornaro. Per ciò che concerne i livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti si è rilevata una stretta connessione e riconducibilità alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto, in particolare dall’area agglomerazione 2: il Tribunale del Riesame si è limitato a ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato sulla base dell’elevata correlazione tra i profili riscontrati nei campioni prelevati presso lo stabilimento Ilva e in prossimità del reparto, con quelli rinvenuti nei terreni agricoli adiacenti allo stabilimento e nei tessuti di alcuni animali da pascolo.
La famiglia Fornaro, armata di coraggio e volontà, ha deciso di intraprendere un processo penale nei confronti del colosso siderurgico, al fine di ottenerne un risarcimento economico che si aggira attorno ai 5.000.000 di euro, per la cessazione assoluta dell’attività e l’abbattimento di tutti i capi di bestiame.
La vicenda giuridica che avvolge questo caso è densa di spunti giurisprudenziali interessanti: accertare la “responsabilità ambientale”, in assenza di dispositivi normativi adeguati, è estremamente cavilloso e difficile, in primis perché spesso spetta alla parte lesa dover dimostrare la connessione tra la condotta lesiva e l’evento infausto, in secundis perché questi processi – a causa dei tempi lentissimi della Giustizia – spesso rimangono insoluti a causa dell’intervento della prescrizione.
La lenta agonia di questa terra assume forme variegate: assomiglia al lamento straziato di una madre, al respiro mozzato dei bovini contaminati, al rumore dei tamburi nella pancia dell’altoforno, al bisbiglio sommesso di una smisurata preghiera sull’altare della rassegnazione. Ma Vincenzo ha lo sguardo di chi non si arrende e le sue riflessioni, candide e delicate come il latte che produceva, divengono affilate come lame d’acciaio. Vincenzo mi confida i suoi sogni di giovinezza: sarebbe voluto divenire un buon fantino, avrebbe voluto produrre prodotti di qualità. Tutto avrebbe pensato, ma non di dover combattere contro il più grande siderurgico d’Europa, contro un impero di mazzette e amicizie pericolose, di collusioni e malaffare. Ma nel mirino della contaminazione sono stati coinvolti anche i 64 bovini dell’allevamento Chiarelli, in contrada Ororfino a Massafra, ad oltre dieci chilometri dal mostro d’acciaio. Entro il cinque febbraio prossimo, a causa del bio-accumulo di diossina e PCB nel latte vaccino in livelli superiori al consentito, verranno abbattuti i bovini che già dall’autunno del 2013 erano sottoposti a vincolo sanitario.
I bovini, sostiene l’allevatore, non erano a pascolo libero: ed è per questo che ci si interroga sulla provenienza del foraggio, sulla possibile contaminazione dello stesso, in quanto raccolto in terreni limitrofi alla zona industriale. Sarebbe un controsenso vietare il pascolo per capre e pecore, ma consentire la raccolta di foraggio per i bovini nei chilometri adiacenti alla zona contaminata. Ci si domanda ancora come mai non si facciano campionamenti direttamente sulla carne in cui la concentrazione di diossina è notevole, ma si effettuino rilevamenti esclusivamente sul latte, in cui la concentrazione è minore o addirittura assente. Se si procedesse in tal modo, si produrrebbe un effetto domino senza eguali: rilevazioni e casi di danneggiamento complessivi della flora e della fauna irreversibili e allarmanti. Ed è proprio in queste vicende che il diritto assume una sua forza propositiva (a patto che non venga ostacolata): la scellerata amministrazione ed organizzazione dell’azienda, l’attuazione di ritmi industriali dopati, lo sfruttamento delle risorse naturali senza alcun controllo sono tutti segnali che rappresentano un modo di concepire l’impresa fallimentare e distruttivo. Vincenzo, ad esempio, dopo l’abbattimento del suo allevamento ha cercato di rimodellare la sua esistenza: ha investito nella canapa, sperando di ricavarne un indotto per la produzione alimentare e ha riaperto un maneggio. Il sorriso di Vincenzo mi descrive paesaggi nascosti dalle ciminiere: campi di grano, staccionate in legno grezzo, fiori e natura selvaggia. Ed è il racconto di epoche mai vissute, di luoghi che non si è osato percorrere, di profumi mai assaporati: immagino il vento leggero nei piccoli orticelli delle case di campagna, tra il tanfo rassicurante di una stalla e il suono armonioso delle cicale nei pomeriggi d’estate. Ah, come vorrei ancora ascoltare le cicale.