Le elezioni per il rinnovo delle RSU in Ilva, conclusesi ieri, consegnano un risultato che può a buon diritto essere definito “storico”. E’ la prima volta che in una grande fabbrica – la più grande in Italia per numero di addetti – un sindacato non confederale (in questo caso la USB) conquista una percentuale tanto consistente (circa 20% sul totale dei collegi). Risultato enorme, se si considera che fino a qualche mese fa quella stessa sigla non era neanche presente in Ilva. A farne le spese è in primo luogo la FIOM, che vede più che dimezzato il proprio consenso – passato da 31 a 15%.
Sia detto in premessa: le righe che seguono non vogliono essere né un’analisi del voto né una parola definitiva. Si tratta di appunti che invitano all’apertura di un dibattito, oggi quanto mai urgente per chi ancora considera i lavoratori in carne, ossa e nervi (non la loro rappresentazione retorica) i soggetti concreti della dinamica storica, in senso progressivo (come è accaduto per un lungo periodo, a partire dalla nascita del movimento operaio) e regressivo (come di fatto è stato negli ultimi due decenni, dopo la vittoria su tutti i fronti – incluso quello del consenso fra le classi subalterne – del capitalismo).
Il risultato delle elezioni in Ilva risulta incomprensibile se non si fa riferimento alla sequela di fatti scatenata dal sequestro del 26 luglio 2012. A partire da quel momento si è manifestato un processo destinato a mutare durevolmente i rapporti di potere in fabbrica. La gerarchia formata e consolidata dai Riva in quindici anni di gestione dello stabilimento si è dissolta. Non è crollato solo il vertice della piramide, con l’azzeramento dei quadri apicali – direttore di stabilimento e capi area – e con la successiva rimozione della stessa famiglia Riva dalla gestione aziendale. Più di recente è venuta meno quella “struttura-ombra” di fiduciari direttamente alle dipendenze della proprietà che ha rappresentato da principio un elemento consustanziale al modello di gestione impostato dai Riva –ispirato al controllo diretto dello stesso management, formula tipica della cultura d’impresa nella quale i proprietari di Ilva si sono formati: quella dell’azienda a gestione familiare. Un ulteriore elemento tuttavia merita di non essere trascurato, anche se è sfuggito alle cronache locali e nazionali. Dall’insediamento di Enrico Bondi, i capi hanno perso la tutela legale che gli veniva garantita dalla precedente gestione; in sostanza, l’azienda non mette più a disposizione i suoi avvocati per cause che riguardino la responsabilità diretta dei preposti. Si tratta di un’innovazione significativa sul piano dei rapporti di potere quotidiani: l’autorità – fino a poco tempo fa indiscussa – dei quadri aziendali ne esce fortemente ridimensionata.
Nel complesso, queste trasformazioni hanno prodotto un enorme vuoto di potere. Ma il potere non è solo dominio; è anche sicurezza, stabilità. Quello che spesso si fraintende parlando di Ilva e delle relazioni fra azienda e lavoratori è proprio la qualità dei rapporti di potere impostati dai Riva. La loro politica nei confronti delle maestranze non è stata solo Palazzina LAF (il più grave caso di mobbing della storia italiana), ma soprattutto una molecolare conquista del consenso giocata sull’interesse (prevalentemente economico) degli operai. Il lavoratore riluttante alla disciplina, il sindacalista politicizzato, nella stragrande maggioranza dei casi non subivano nessuna persecuzione; piuttosto non gli venivano concessi avanzamenti di livello e altre spettanze cui avrebbe avuto diritto sulla base delle proprie capacità professionali – e, nel caso fosse un sindacalista, non venivano negate a lui solo ma anche ai suoi iscritti e addirittura ai suoi compagni di lavoro. Di contro, a chi si mostrava incline nei confronti della gerarchia, poco alla volta quelle stesse cose venivano riconosciute. Nella realizzazione di questa operazione, volta a trasformare il diritto in favore, sono state cooptate anche alcune organizzazioni sindacali – tanto per intenderci, non la FIOM. Tutto questo creava consenso, nei confronti dell’azienda e dei sindacati in grado di praticare un’interlocuzione privilegiata coi suoi quadri. Un consenso fatto di piccoli gesti quotidiani, del riconoscimento di un’autorità forte, ma anche benevola – bastava saperla prendere, saper parlare col capo o col delegato ammanicato. Tutto questo oggi, in buona parte, è venuto meno.
Il vuoto di potere ha generato un profondo smarrimento nella massa operaia. Questa oggi non ha certezze né sul proprio presente né tantomeno per il futuro. L’USB di Ilva ha saputo giocare con queste incertezze, corteggiandole, facendole esplodere attraverso comunicati e volantini di fuoco che rendevano manifesto il vuoto e, allo stesso tempo, puntavano a non colmarlo, evidenziando piuttosto tutta l’inadeguatezza delle opzioni messe in campo dal governo per gestire la crisi Ilva. Con lo stesso metodo con cui Grillo è riuscito a costruire il proprio consenso presso una parte consistente dell’elettorato italiano (e non a caso gli operai Ilva lo hanno votato in massa alle scorse politiche), quel sindacato si è assicurato un successo straordinario fra gli operai Ilva.
A questo proposito, il punto che occorre affrontare è: perché la FIOM non è stata in grado di colmare quel vuoto con un’iniziativa sindacale e politica adeguata? Su questo la riflessione deve essere profonda, e riguardare non solo l’organizzazione chiamata in causa, ma tutte le forze politiche e sociali che in questi anni hanno riconosciuto nella Fiom un interlocutore privilegiato e qualificato. Se questa non si rivela in grado di gestire un fronte di conflitto di enorme portata come quello dell’Ilva, il problema non è solo della sua diramazione locale, non è solo della sinistra jonica, ma investe tutte le forze di progresso presenti nel nostro paese. In questa sede si prova ad accennare ad almeno tre elementi che sono stati alla base della debolezza della FIOM, nella piena convinzione che si tratti di una lettura parziale, di un sasso gettato nello stagno.
1) Sul piano strategico, la proposta della FIOM in relazione alla crisi Ilva è apparsa incerta e, in definitiva, inadeguata. L’opzione del “prestito forzoso” per realizzare gli investimenti di ristrutturazione dello stabilimento – ribadita ancora una volta nella conferenza stampa di giovedì scorso – aveva una funzione finché il quadro proprietario era ben definito. Il decreto di commissariamento e i successivi sviluppi della vicenda hanno tuttavia reso evidente che, con ogni probabilità, i Riva verranno estromessi dalla proprietà dell’azienda alla scadenza del mandato di Bondi. Questo è il punto fondamentale alla base dell’incertezza covata dai lavoratori. Ad oggi tuttavia non è chiaro cosa la Fiom proponga in merito al futuro assetto di Ilva. Come non è chiaro il tipo di stabilimento che la Fiom immagina per l’avvenire (più piccolo, con una struttura produttiva differente ecc.). Certo, si potrebbe ribattere che, in fondo, la Fiom è un sindacato e il sindacato deve stare sulla vertenza; ma questo non è mai stato lo “stile” della Fiom, che storicamente ha dimostrato di saper elaborare proposte ampie per problemi articolati. E solo su questo tipo di proposte si può provare a portare i lavoratori fuori dalle incertezze.
2) Quest’ultimo problema ne chiama in causa un altro, relativo alla qualità dei quadri sindacali. La Fiom di Taranto è stata sconvolta negli ultimi anni da provvedimenti disciplinari che, da una parte, hanno contribuito a “fare pulizia”, ma dall’altra hanno portato a un sostanziale azzeramento del suo gruppo dirigente. In questo contesto sono avanzate nuove personalità, espressione di quella giovane classe operaia entrata in fabbrica col radicale turn over dei primi anni 2000. Si sono dati a questi nuovi quadri strumenti culturali e tecnici adeguati ad affrontare le complicate questioni sollevate dalla vicenda Ilva? Si è compiuto uno sforzo di coordinamento affinché i delegati di stabilimento maturassero una visione unitaria e organica del processo produttivo e dei suoi problemi, in modo da poter fronteggiare al meglio l’azienda e dare risposte serie ai lavoratori?
3) Infine, la Fiom ha sempre rappresentato più che un sindacato. Negli ultimi anni, in particolare, a partire da singole vertenze (su tutte, quella FIAT), ha saputo esprimere una straordinaria capacità di interlocuzione con i settori più avanzati della società civile. A Taranto tutto questo, da almeno un anno a questa parte, è mancato. Il “trauma del 2 agosto” non è stato riassorbito e rielaborato in maniera positiva. La FIOM avrebbe potuto essere il perno di una coalizione di soggetti politici e sociali in grado di elaborare un’idea nuova di rapporto fra fabbrica e città, chiamando al dialogo gli stessi settori del mondo ambientalista e le realtà giovanili. E coinvolgendo in questo sforzo le energie intellettuali che il territorio e il paese esprimono, per far avanzare una grande battaglia culturale sul rilancio dell’industria italiana tramite la sua conversione ecologica.
Si auspica che su questi ed altri temi il dibattito sia lungo e approfondito. Quello che proprio la Fiom e la Sinistra non possono permettersi in questo momento è la regressione a uno schema del tipo “i panni sporchi si lavano in famiglia”. La “famiglia” (del sindacato e della politica, ma anche dei movimenti) rischia infatti di scomparire a breve, come quelle casate nobiliari dal grande passato che ad un certo punto della Storia sono apparse d’improvviso anacronistiche. Un ferro vecchio di cui liberarsi.