Non accadeva dal caldissimo 2 agosto 2012. Uno sciopero proclamato unitariamente, dei lavoratori diretti e degli appalti, con corteo nella città di Taranto. Poco prima c’erano stati: lo sciopero del 26 luglio e, a marzo dello stesso 2012, l’assemblea dei sindacati sotto la Prefettura qualche giorno prima – e in contrapposizione – allo sciopero “aziendale” (ovviamente retribuito) del 30 marzo.
Lo sciopero del due agosto era stato proclamato unitariamente dai sindacati Fim, Fiom e Uilm – l’Usb a Taranto non si era ancora costituita – con parole d’ordine che puntavano a coniugare ambiente e lavoro. La partecipazione fu massiccia. Si stava in piazza ognuno con una sua idea e con numerosi ed evidenti distinguo da parte delle organizzazioni sindacali, anche per quanto riguarda l’atteggiamento verso la magistratura e verso la proprietà dei Riva. Un’unità sindacale difficile e precaria, ma necessaria – in un momento drammatico – per una classe lavoratrice smarrita e disorientata, per nulla abituata ad aprirsi alla città e ad affrontare problemi e contesti più ampi e complessi. Quella manifestazione subì – durante il comizio conclusivo – l’irruzione del neonato “Comitato dei lavoratori e cittadini liberi e pensanti”, che aveva aderito con un proprio spezzone e con più o meno le stesse parole d’ordine – “Sì ai diritti no ai ricatti. Occupazione salute reddito ambiente”, si leggeva nel loro striscione. Il Comitato rigettava però l’ipotesi che a rappresentare tali istanze fossero i sindacati, ritenuti inaffidabili e complici – sebbene molti suoi membri ne erano stati dirigenti fino a qualche anno prima. Il tutto sfociò in una dura e pesante contestazione ai sindacati, che non impedì però di portare a termine il comizio con l’intervento conclusivo del Segretario Nazionale della Cgil, Susanna Camusso, in una piazza diventata nel frattempo più scarna ma ancora significativamente numerosa.
A quel momento seguirono nuovamente le divisioni e i veleni: lo “sciopero dei panini” proclamato da Fim e Uilm, il concitato corteo interno unitario con l’occupazione della direzione e lo sciopero dei lavoratori dell’appalto Ilva, che manifestarono in città nel gennaio del 2015. In mezzo, 9 decreti, le inchieste e i processi della magistratura, svariati assetti proprietari e un dialogo difficile a tutti i livelli. Fino all’attuale bando di vendita, che rappresenta il vero giro di boa e l’inizio della soluzione finale – improbabile che si cambi direzione nuovamente – per la vertenza Ilva: una svolta che costituisce la premessa dello sciopero del 10 febbraio, proclamato a valle della lotta degli operai dello stabilimento Ilva di Cornigliano avvenuta qualche settimana fa.
Lo sciopero, come si è detto, è stato proclamato unitariamente da Fim Fiom Uilm, con l’adesione di Usb e Flmu, ed ha riguardato tutti gli stabilimenti del gruppo: Racconigi, Novi Ligure, Marghera nonché tutto l’indotto.
Questa volta è inverno, piove e fa freddo ma gli operai decidono di lottare anche contro le intemperie, la maggior parte di loro orgogliosamente in tuta da lavoro a sfidare i tentativi di chi, neanche troppo velatamente, vorrebbe vederli vergognarsi di quella tuta e di quel lavoro. L’adesione allo sciopero è buona – nonostante le poche assemblee svolte in fabbrica –, come anche i numeri del corteo: tra i 3000 e i 3500 dicono le cronache.
Anche l’adesione delle istituzioni non manca. Sono presenti, tra gli altri, il comune di Taranto, la Provincia e il Presidente della Regione, Michele Emiliano. C’è anche una delegazione di Confindustria, ma senza simboli e bandiere; qualche giorno dopo la sua discussa adesione erano arrivati – da Fiom e Usb, in particolare, ma anche unitariamente – ammonimenti a non strumentalizzare la protesta dei lavoratori; e durante il corteo ci sono stati anche momenti di contestazione nei confronti dell’associazione degli industriali.
Le piattaforma sindacale rivendica chiarezza e certezza sul futuro dell’Ilva, sulla compatibilità ambientale dello stabilimento, sul risanamento ambientale del territorio, sul mantenimento dei livelli occupazionali, sull’integrità del gruppo e sul potenziamento delle strutture sanitarie.
Per strada la città reagisce ancora con apparente indifferenza: sentimenti e gesti di approvazione si scorgono nei sorrisi timidi e appena abbozzati dei pescatori, della gente affacciata ai balconi, nei passanti, nei visi delle banconiste dei bar; mentre qualcun altro mal sopporta la protesta operaia e accusa con rabbia, dicendo che la fabbrica va chiusa.
Si susseguono ai megafoni gli interventi dei delegati, con sfumature e accenti anche molto diversi, sintomo di un’unità sindacale anche questa volta molto precaria, che fatica a tenersi insieme e che potrebbe sgretolarsi con la stessa velocità con cui è nata, alla prima difficoltà. Uniti negli obiettivi finali, ma con opinioni ancora distanti sulla modalità con cui raggiungere tali obiettivi, che si aggiungono alle divisioni più ampie, di portata nazionale. Di sicuro una classe lavoratrice e sindacale più matura e più consapevole del passato rispetto ai temi della salute e dell’ambiente, a dispetto chi la vorrebbe complice e/o carnefice.
Sotto la Prefettura un sindacalista, con la voce resa rauca dalla stanchezza, chiede un minuto di silenzio per le vittime dell’inquinamento industriale e per le vittime sul lavoro; gli operai rispondono con un applauso. È un bel gesto! Ma le cronache dei giornali non lo racconteranno.
Lo sciopero si conclude con la consegna di un documento, contenete le rivendicazioni dei lavoratori, al Prefetto, Umberto Guidato.
Il corteo si dilegua e si va verso i pullman per rientrare in fabbrica; nel frattempo è uscito uno squarcio di sole.
In questi anni i lavoratori ne anno subite di tutti i colori – e ancora oggi atteggiamenti di questo tipo resistono e persistono. Sono stati definiti “assassini”, “complici” e “strafottenti” – a questo proposito è doveroso segnalare la difesa pubblica dell’attore Michele Riondino, tarantino e figlio di operai. Sono stati descritti come egoisti e privi di solidarietà, senza considerare che certi valori sono in crisi in tutta la società, e i lavoratori non sono qualcosa di diverso dalla società. Sono stati considerati incapaci di pensare, di decidere e di farsi carico del loro futuro, burattini nelle mani dei sindacati. Per non parlare poi dei biechi tentativi di innescare guerre tra poveri mettendo in contrapposizione, di volta in volta, i lavoratori con i malati, con i disoccupati, con i precari; tarantini contro “paesani” prima, tarantini contro genovesi poi. Critiche, accuse e contrapposizioni che di sicuro non si placheranno.
Tentativi vari di delegittimare la mobilitazione – tutto sommato riuscita – vengono infatti riproposti anche subito dopo lo sciopero: c’è chi accusa i manifestanti di essere andati a braccetto col padrone, e chi vorrebbe dettare il tipo di mobilitazione da intraprendere. Ma il bersaglio preferito rimane il sindacato – anche perché non ci sarà nessun Riondino a prenderne la difesa –, col tentativo di dividere i lavoratori dai loro legittimi rappresentanti, eletti democraticamente; tentativo per altro già provato e riprovato dal 2012 in poi.
La battaglia resta difficile e lunga. Oggi però i lavoratori si sono ripresi parte del loro protagonismo e della loro autonomia. Sono usciti rafforzati dallo sciopero del 10 febbraio e, sia pure ancora con mille dubbi e mille differenze, hanno dato una prova di maturità, presentandosi come soggetto che rifugge le divisioni e si mette in discussione con umiltà, per la salvaguardia della salute dell’ambiente e dell’occupazione. Forse il salto di qualità non è ancora avvenuto, ma la buona volontà è indubbia.
Quella stessa volontà che ora tocca agli altri mostrare, mettendo da parte la rabbia cieca e fine a se stessa; quella rabbia che porta a considerare come unico terreno di scontro non più la salute e l’ambiente, ma la fabbrica in sé, identificata come il male dei mali, e la sua chiusura come punto di partenza esclusivo di qualsiasi ipotetico dialogo. Quella fabbrica che, piaccia o meno, insieme a tutte le problematiche che sappiamo, ha portato anche un benessere prima sconosciuto al territorio tarantino. Quella stessa fabbrica che qualcuno ancora si ostina a difendere, rifiutando il ricatto di chi vorrebbe che si scegliesse tra salute e lavoro, perché questi diritti vanno pretesi entrambi.
Mentre scrivo queste riflessioni, chissà perché, continua a girarmi in testa una strofa di una canzone di Francesco Guccini: è una sorta di preghiera laica, che mi sembra si adatti bene alla nostra situazione, e descriva perfettamente quello di cui Taranto, tra le altre cose, avrebbe bisogno:
“Dai poveri di spirito e dagli intolleranti,
da falsi intellettuali, giornalisti ignoranti,
da eroi, navigatori, profeti, vati, santi,
dai sicuri di sé, presuntuosi e arroganti,
dal cinismo di molti, dalle voglie di tanti,
dall’egoismo sdrucciolo che abbiamo tutti quanti,
libera, libera, libera, libera…”
E’ proprio il caso di dirlo: libera… Taranto