Settembre è il mese delle nuove stagioni, dei nuovi inizi, delle nuove prospettive. Il mese in cui, dopo essersi disintossicati da un altro inverno, si prova a ricominciare con un nuovo entusiasmo, con nuovi stimoli e con gli stessi problemi che avevamo lasciato irrisolti, pensando che il calore estivo dei generosi raggi del sole li abbia dissolti e fatti scomparire nel nulla.
Settembre si porta via l’estate, le ferie, le vacanze, e ci consegna rigenerati, nuovamente pronti al punto di partenza. Le strade tornano ad essere attraversate, ricomincia la scuola. La città torna a riempirsi con il suo carico indecifrabile di aspettative, sospesa e attendista, con tutti i suoi problemi ancora li, rinviati di stagione in stagione. Tutto torna a scorrere lento, regolare, senza scossoni, in una tranquillità impressionante, proprio nei mesi in cui si dovrebbe decretare una svolta decisiva, destinata a fare storia: la vendita, la seconda dalla sua costruzione, dello stabilimento siderurgico di Taranto.
La storia si ripete e la seconda volta è sempre una farsa. Cosi lo stabilimento più grande d’Europa si accinge a passare ad un nuovo proprietario privato, ad un nuovo “salvatore della patria”: ieri fu la famiglia Riva, oggi la famiglia salvatrice si chiama Mittal.
Seppur ancora in chiaroscuro, si intravede la fine di un interminabile transizione partita da quel 26 luglio del 2012 in cui fu ordinato il sequestro dell’area a caldo. Nel labirinto, che sembrava essere senza uscita, finalmente si scorge una luce, forse la soluzione del conflitto: un equilibrio definitivo tra lavoro, salute e ambiente. Ma è davvero così?
Quattro governi si sono alternati e presto ne arriverà un quinto; 11 decreti sono stati licenziati nel tentativo di correggere una traiettoria troppo spesso sbilenca, che ha visto cambi di strategia repentini, improvvisi capovolgimenti di fronte, sequestri, giudici, commissari, curatori fallimentari, vecchie paure e nuove speranze, per poi tornare inevitabilmente sempre al punto di partenza. Tutto sembra sul punto di cambiare eppure non cambia mai nulla. Tutto sembra perduto eppure ancora niente è perso. La partita è tutta li da giocare, la storia da scrivere, la strada da trovare e da percorrere. Nel frattempo si concretizzano i primi dettagli con cui fare i conti e il percorso appare subito in salita.
La procedura di aggiudicazione prevista dal bando di vendita si è chiusa a giugno con la scelta della cordata Am Investco (composta da Arcelor Mittal e da Marcegaglia, e il sostegno di Banca Intesa-San Paolo); ci sarebbe anche un decreto di aggiudicazione a firma del Ministro dello sviluppo economico, ma pare che nessuno lo abbia mai né visto né letto. A luglio, dopo un lungo iter ministeriale, è finalmente apparso il piano ambientale proposto dal nuovo acquirente, che subito sembra farci tornare indietro di qualche anno, al periodo immediatamente post-sequestro, quando la famiglia Riva cercava appena di ripulirsi dalla vecchia immagine ormai irrimediabilmente compromessa e concedere giusto qualche garanzia in più per l’ambiente e per la salute.
Il piano proposto da Am Investco risulta palesemente insufficiente. A dimostrarlo, qualora ce ne fosse bisogno, il coro di osservazioni critiche che parte dalle associazioni (Legambiente, Italia nostra, Peacelink), passa per le istituzioni (Comune e Regione) e gli enti tecnici (Arpa Puglia), e arriva ai sindacati (Fiom, Cgil e Fim-Cisl). Soggetti diversi e dalla diversa visione sul futuro dell’Ilva, uniti per l’occasione da un comune giudizio negativo: una bocciatura sonora e unanime su tutta la linea: in particolare, sul ritardo dei tempi di attuazione di alcune prescrizioni fondamentali, sulla mancanza della Valutazione del danno sanitario e sull’assenza di nuovi investimenti tecnologici.
Sul fronte della trattativa occupazionale, complici i continui rinvii delle occasioni di confronto, le premesse, se possibile, sembrano addirittura peggiori . Su un organico totale di circa 14.200 unità, gli assorbiti sarebbero solo 10.000 (già con una mediazione al rialzo del governo). I restanti 4.200 sarebbero lasciati nell’amministrazione straordinaria, legati alla cassa integrazione garantita fino al 2023, senza alcuna ulteriore prospettiva futura. Con l’aggravante, anche per gli anni coperti dalla Cigs, di vedere un abbassamento del salario e l’umiliazione di restare probabilmente per molto tempo ancora lontano dai luoghi del lavoro .
Ma se i dipendenti di Ilva in AS di fronte a uno scenario simile piangerebbero, i colleghi di Am Investco di certo non avrebbero da ridere: anche per loro infatti la garanzia di lavoro sarebbe fino al 2023 – scadenza del piano ambientale/industriale –; il dopo non è dato conoscerlo con certezza. E anzi non sarebbero da escludere nuovi echi di esuberi, con il rischio che i diritti acquisiti, compresi quelli salariali, possano essere rivisti al ribasso nel passaggio d’azienda; con una buona probabilità, infine, di un’ulteriore cassa integrazione, per gestire il personale di quegli impianti strategici che però non potranno andare già da subito a pieno regime. Sui lavoratori dell’appalto nessuna menzione, nessuno impegno, proprio mentre il clima torna ad essere teso, con il licenziamento nella Giove srl di un delegato della Fiom, reo di aver provato a mobilitarsi insieme ai suoi colleghi.
Decisivo, in ogni caso, sarà l’ eventuale accordo sindacale. Unico strumento, alle condizioni date, per derogare all’articolo 2112 del codice civile (il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cessione d’azienda) che troverebbe applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo.
Ma non è tutto. Infatti, affinché tutto vada verso i giusti binari, ci sarà da attendere il parere dell’antitrust europeo che, se negativo, potrebbe imporre tagli di produzione a qualcuno degli stabilimenti di Mittal sparsi in Europa. Anche se il governo italiano si è già assicurato la garanzia di Mittal che gli impegni sottoscritti in Italia rimarrebbero tali e quali. E pazienza se a pagare saranno i lavoratori francesi o belgi: è l’Europa unita!
Sullo sfondo, infine, rimane l’ intricatissima questione giudiziaria: i giudici fallimentari, in attesa dei soldi dell’affitto/vendita per poter pagare i creditori (compresi i moltissimi lavoratori) e quelli della Cassazione, che a breve potrebbero confermare la decisione della Corte d’Assise, cioè il rifiuto del patteggiamento proposto dai Riva e il conseguente perdurare del sequestro degli impianti, che a quel punto non potrebbero essere venduti a nessuno.
La situazione che si prospetta per l’Ilva si annuncia estremamente complicata e piena di ostacoli. La strada intrapresa pare non piacere a nessuno e sembra non essere quella giusta: si allontana nuovamente l’uscita del labirinto.
Niente male insomma per essere la fase terminale di un processo durato e studiato per oltre cinque anni. Niente male per essere, quello di Taranto, uno stabilimento considerato strategico per il paese. Ancora una volta il rischio è quello di ritrovarsi al punto di partenza. Forse arriverà un nuovo decreto, forse ci sarà un altro clamoroso cambio di passo. Intanto il conflitto tra lavoro e ambiente sembra lontano dal risolversi positivamente mentre la fabbrica piano piano sembra avvitarsi inesorabilmente su se stessa, stanca e provata.
Arriverà il freddo, l’autunno sarà ostico, e l’inverno potrebbe essere lungo e rigido. Aspetteremo una nuova estate per poi ricominciare nuovamente dall’inizio. Sempre lì, dentro il labirinto, dove l’uscita non si trova e dove la storia si ripete ciclicamente. Ancora lì, incapaci di capire come e da dove ripartire. Sempre in cammino, per poi ritrovarsi sempre al punto di partenza.