Andrea Pertici è professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Pisa, avvocato, già consigliere giuridico presso l’Ufficio legislativo del Ministro per le politiche europee. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, il prof. Pertici ha pubblicato di recente il testo “La Costituzione spezzata. Su cosa voteremo con il referendum costituzionale” (ed. Lindau). In occasione di una sua recente conferenza a Taranto, promossa dal comitato locale di “Possibile”, gli abbiamo rivolto alcune domande sull’appuntamento referendario del prossimo 4 dicembre.
Prof. Pertici, partiamo da una considerazione sul metodo con cui è stato concepito questo disegno di riforma costituzionale. In un suo intervento, lei si è soffermato sul ruolo di primissimo piano avuto dal governo nella concezione e nella stesura della riforma, operando un interessante confronto con altri esecutivi della storia repubblicana, primi tra tutti i governi De Gasperi, che in passato hanno evitato di scendere direttamente in campo in una discussione così delicata come quella che involge la Carta Costituzionale. Come giudica questo atteggiamento estremamente “interventista” del governo Renzi?
Alla Costituente De Gasperi decise di non intervenire. Il Presidente del Consiglio intervenne solo una volta in qualità di deputato della Democrazia Cristiana, non di capo del governo. Diversamente, da qualche anno i governi sono troppo protagonisti delle riforme costituzionali. Dico troppo perché se un progetto di riforma costituzionale viene dal governo, è chiaro che si caratterizza come una proposta di parte; e quando una proposta è di una parte, naturalmente determina la contrapposizione dell’altra. Questo è avvenuto in questa circostanza, come è avvenuto nel 2006 col governo Berlusconi. Dopo la bocciatura di quella riforma da parte degli elettori [col referendum del 25 e 26 giugno 2006, ndr] si era però detto che quel metodo andava abbandonato, mentre purtroppo in questa legislatura è stato ripreso.
Venendo al merito della riforma, ad accendere maggiormente il dibattito è senza dubbio la modifica del bicameralismo. Secondo lei, questa riforma rappresenta davvero il superamento del bicameralismo perfetto?
Inizialmente si parlava di eliminazione del Senato, ma questo non è mai stato nelle intenzioni. Questo punto di partenza però ha avuto una certa diffusione, al punto che oggi alcuni paragonano questa riforma all’idea che aveva la Sinistra di un parlamento composto da una sola camera. Ma questa idea non ha niente a che vedere con questa riforma, che mantiene due camere, la Camera e il Senato, rendendole ancora più diverse l’una dall’altra. Così il bicameralismo è addirittura accentuato. Potremmo dire che la riforma quasi raddoppia il bicameralismo. Perché due camere simili somigliano di più a una camera sola, mentre due camere così diverse rischiano di complicare molto il bicameralismo che c’è, e quindi di peggiorare le cose. Senza considerare che, mentre si dichiara che si vorrebbe eliminare il Senato, in realtà non solo il Senato rimane, ma si elimina il voto dei cittadini per il Senato. Avviene in sostanza qualcosa di simile a ciò che è già avvenuto per le Province, che non sono state eliminate: è stato eliminato il voto dei cittadini.
A suo parere, esiste una esigenza così impellente di superamento del bicameralismo?
La riforma non supera il bicameralismo, come abbiamo visto. Ora, non è necessario avere due camere: alcuni paesi hanno una camera sola – normalmente si tratta di paesi un po’ più piccoli dell’Italia (Portogallo, Grecia, i paesi scandinavi ecc.). Certo, il bicameralismo perfetto poteva – e, per certi versi, doveva – essere superato, per rimediare ai problemi che esso pone. Che in realtà sono pochi, e potevano essere risolti in modo molto semplice. Per esempio, lasciando la fiducia alla sola Camera dei Deputati – cosa che avrebbe richiesto una modifica circoscritta solo a questo punto – e, per i pochi casi in cui effettivamente c’è il ping pong fra una camera e l’altra – nella scorsa legislatura si è trattato di appena 90 leggi su 390; in questa di una quarantina su 220 –, mettendo in campo una commissione paritetica di deputati e senatori che, in caso di contrasto fra Camera e Senato, favorisse il raggiungimento di una posizione comune, come già avviene in altri paesi.
Lei ha parlato di “contenuto cangiante della riforma”, riferendosi alla ambiguità di diversi passaggi chiave della stessa, tale da consentire di darne l’interpretazione che fa più comodo a seconda del messaggio che si vuole veicolare. Ha utilizzato tale espressione, tra l’altro, con riferimento alla elezione dei senatori. Cosa prevede effettivamente la riforma a tal riguardo e perché un punto così fondamentale genera tanta confusione?
La questione della elettività dei senatori è stato il punto che ha più diviso soprattutto il Partito Democratico: la minoranza era molto determinata nell’imporre l’elezione dei senatori da parte dei cittadini; mentre la maggioranza voleva senatori non eletti – e lo stesso Presidente del Consiglio aveva posto questo come primo paletto. Su questo punto il governo ha tirato dritto, fin quando Berlusconi si è sfilato dall’accordo. Allora, di fronte al rischio di non avere più i numeri, il governo ha cercato un compromesso con la minoranza del PD. Gli esiti di questo accordo sono però molto deludenti. Infatti si lascia la elettività dei senatori ai consigli regionali, però si aggiunge un inciso che fa riferimento alle indicazioni espresse dagli elettori nell’elezione degli stessi consigli. Naturalmente questa è una formula ambigua. Tuttavia resta come punto fermo il fatto che i consigli regionali eleggono i senatori. Per cui il riferimento alle indicazioni degli elettori non potrà prescindere dal fatto che i senatori non saranno più eletti da tutti i cittadini, ma dai consigli regionali. Un’eventuale legge elettorale per il Senato che non desse ai consigli regionali la possibilità di scegliere i senatori sarebbe incostituzionale.
I sostenitori del SI affermano che, a prescindere dal merito della riforma, questa rappresenta l’ultima occasione che abbiamo per riformare la Costituzione. Le cose stanno davvero così?
L’ultima occasione per riformare la Costituzione la si ha votando No. Mi spiego. Se vinceranno i Sì, avremo una riforma costituzionale sbagliata, che complica il sistema – complica il rapporto Stato-Regioni e complica i rapporti fra le camere. E sarà più difficile cambiarla, perché con il nuovo sistema avremo la necessità di avere il consenso di due camere che nel frattempo diventeranno molto diverse l’una dall’altra. Faranno quindi più fatica ad accordarsi su future modifiche costituzionali. Se invece vincerà il No, il discorso sulla modifica costituzionale non sarà chiuso, ma si potranno fare riforme costituzionali mirate. Perché la “grande riforma” è la vera nemica delle riforme che servono. Per fare le riforme che servono dobbiamo andare a identificare i problemi che effettivamente l’attuale assetto pone e operare solo su quelli. Si tratterebbe di fare quattro/cinque modifiche mirate che non mettono a soqquadro il sistema e non costringono il futuro Parlamento a perdere molto tempo nella revisione di tutti i regolamenti e nell’approvazione delle leggi di attuazione. L’attuale riforma è infatti piena di rimandi a leggi ordinarie e regolamenti, per cui la prossima legislatura sarà costretta a occuparsi di questi temi, invece di fare le leggi più urgenti per il paese.
Lei sostiene che la Costituzione non necessita di stravolgimenti, ma di alcuni interventi di “manutenzione”. Quali sono questi interventi?
Anzitutto, credo sia serio ridurre significativamente il numero dei parlamentari. Questo non significa dover ridurre il numero dei politici, come sostiene la campagna per il Sì: tutti i cittadini dovrebbero essere impegnati in politica, come raccomandava Piero Calamandrei. La riduzione dei parlamentari dovrebbe però riguardare soprattutto la Camera dei Deputati, che invece non viene toccata per niente da questa riforma. Andrebbero ridotti di circa un quarto i componenti sia della Camera che del Senato, quindi in misura ben maggiore di quella prevista dalla riforma. Congiuntamente alla riduzione del numero dei parlamentari, bisogna ridurre le loro indennità. E questo si può fare con una semplice legge ordinaria, che però ancora non viene fatta.
In secondo luogo, si dovrebbe abbassare il quorum per i referendum abrogativi e rendere obbligatoria la discussione delle leggi di iniziativa popolare – e, ove ciò non avvenga entro un certo termine, istituire un referendum propositivo che consenta ai cittadini di imporre le proprie decisioni.
Inoltre, come ho già detto, la fiducia al governo dovrebbe riguardare solo la Camera, mentre andrebbe istituita una commissione paritetica per sciogliere i pochi casi di contrasto fra i due rami del parlamento.
Per quanto riguarda, infine, le competenze dello Stato e delle regioni, per superare davvero le occasioni di contenzioso si sarebbero potute esaminare le decisioni già prese dalla Corte Costituzionale sui contenziosi fra Stato e regioni per definire meglio le materie indicate nell’attuale Titolo Quinto della Costituzione. Purtroppo si è invece adottata una logica che dimostra la scarsa conoscenza della giurisprudenza costituzionale su questo punto: si sono infatti riscritti interamente gli elenchi di materie di competenza statale e regionale – cosa che determinerà certamente un riaccendersi del contenzioso Stato-regioni di fronte alla Corte Costituzionale.