Lo scorso 13 febbraio i consiglieri del Movimento Cinque Stelle in Puglia e Campania hanno presentato ai rispettivi Consigli regionali una mozione avente ad oggetto l’“istituzione di una giornata della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana”. Il testo propone di “indicare il 13 febbraio come giornata ufficiale in cui si possano commemorare i meridionali che perirono in occasione dell’unità, nonché i relativi paesi rasi al suolo”. La richiesta è motivata da alcune premesse:
L’unità d’Italia – scrivono i consiglieri grillini – costò la vita di almeno 20.000 meridionali, sebbene autorevoli storici annoverano finanche 100.000 vittime; numerosi paesi furono rasi al suolo. In particolare si ricorda la strage di Pontelandolfo e Casalduni; nella maggior parte dei testi scolastici e universitari le pagine più oscure della storia d’Italia sono appena annoverate; non esiste una giornata ufficiale della memoria dedicata ai meridionali che perirono in occasione delle procedure di annessione del Mezzogiorno.
L’iniziativa richiama persino nel lessico la “giornata della memoria” dedicata alle vittime della Shoah – alludendo alla tesi del “genocidio” dei meridionali ad opera dello Stato unitario sostenuta di recente da Pino Aprile (ma senza tuttavia riprendere le cifre iperboliche sui morti richiamate da questo autore, v. Carnefici, Piemme 2016). Tuttavia, come vedremo, la giornata per le vittime dell’unificazione assomiglia molto più da vicino al “giorno del ricordo”, istituito nel 2004 per commemorare le vittime delle foibe e “dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati”. In entrambi i casi, si tratta del tentativo di generalizzare – istituzionalizzandola – una memoria “di parte”, chiaramente riconducibile a precise istanze politiche.
La data del 13 febbraio si riferisce con ogni evidenza alla conclusione dell’assedio portato a Gaeta dalle truppe piemontesi del generale Cialdini; la capitolazione sottoscritta da Francesco II il 13 febbraio 1861 segna la resa definitiva del sovrano – l’annessione dell’ex Regno delle Due Sicilie era già avvenuta coi plebisciti del 21 ottobre precedente. A partire da quel momento, la reazione antiunitaria nelle province meridionali (ma anche, in una prima fase, nell’area confinante dei domini pontifici) si intensifica, assumendo i connotati di una guerriglia che gli avversari definirono “brigantaggio”.
Individuando quella data, gli estensori della proposta hanno dunque fatto propria una visione molto precisa: in primo luogo, che l’unificazione italiana altro non sia stata che la conquista armata del regno meridionale da parte di quello sabaudo; in secondo luogo, che a questa sottomissione abbia fatto seguito una resistenza nazionale, i cui caduti si intende celebrare con l’istituzione di una commemorazione pubblica.
Si tratta, come si è accennato, di una tesi unilaterale. Le sue radici affondano in epoche a noi molto lontane. Sono gli stessi testimoni di quei fatti, chiaramente di parte borbonica, a sostenerla per primi. E l’obiettivo è evidente: fomentare la rivolta per ripristinare l’indipendenza del regno sotto l’autorità della dinastia legittima (come si diceva all’epoca).
La realtà però è molto diversa. Come hanno messo in evidenza di recente importanti storici, la fase che precedette e seguì l’unificazione italiana la si può rappresentare nei termini di una guerra civile scatenata dall’esplosione di un’ondata rivoluzionaria (è soprattutto la tesi di Salvatore Lupo, L’unificazione italiana, Donzelli 2011).
Infatti è opportuno ricordare che il buon Giuseppe Garibaldi avrebbe fatto ben poco se ai suoi mille sbarcati a Marsala non si fossero aggregate masse di uomini meridionali insorte contro il potere borbonico (sul Volturno, nella battaglia decisiva per le sorti del conflitto, i garibaldini erano circa 24 mila, nella quasi totalità meridionali).
Gli estensori della mozione giustamente denunciano la superficialità con cui i libri di testo trattano della convulsa fase post-unitaria al Sud, ma altrettanta insofferenza dovrebbe suscitare la pressoché totale rimozione delle insurrezioni che precedettero l’arrivo a Napoli dell’eroe dei due mondi. La strada delle camice rosse verso la capitale del Regno fu tutt’altro che una passerella; essa venne spianata dall’azione locale dei patrioti meridionali che presero le armi contro il potere costituito, si impossessarono dei presidi istituzionali sconfiggendo i borbonici, e successivamente si arruolarono nell’esercito di Garibaldi. Se, per esempio, oggi si ricorda la Basilicata come terreno delle scorrerie della banda di Carmine Crocco (a lui sono dedicate commemorazioni pubbliche di diverso tipo), è molto meno presente la memoria dei moti rivoluzionari che esplosero in quella regione qualche settimana prima dell’arrivo di Garibaldi. Eppure all’epoca la notizia dell’insurrezione del minuscolo centro di Corleto Persicara fece il giro del mondo, spingendo niente meno che Friedrich Engels – sodale e amico di Karl Marx – a scriverne.
Con l’annessione la situazione non si normalizzò affatto. Nelle province meridionali continuavano a ribollire tensioni di diverso tipo. Sul piano politico, si fronteggiavano il nuovo governo retto dalla Destra di Cavour – rappresentato al Sud da esponenti meridionali emigrati a Torino nei decenni precedenti per sfuggire alle persecuzioni del Borbone –, i garibaldini frustrati dall’esito politico del processo da loro messo in moto – e avversati tenacemente dal nuovo regime – e i sostenitori del vecchio ordine – annidati soprattutto nelle truppe dell’ex esercito borbonico, tutt’altro che contente di finire arruolate nelle fila del costituendo esercito italiano (su questo punto si veda il ricchissimo lavoro di Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia, Laterza 2012).
Sullo sfondo, la realtà sociale era tutt’altro che pacificata. La dinamica di rivoluzione-reazione innescata dalle insurrezioni dei mesi precedenti non si era esaurita con l’esito dei plebisciti. La situazione risultava anzi complicata dalle divisioni emerse nelle fila unitarie. Chi si era battuto contro il Borbone veniva ora identificato come un potenziale pericolo dalle nuove autorità: su queste figure gravava il sospetto di nuove mire rivoluzionarie. In questo stato di incertezza, i sostenitori del vecchio ordine trovarono l’occasione di riorganizzarsi, facendo leva sui militari renitenti per alimentare la lotta armata contro il nuovo Stato. D’altra parte, la guerriglia pescava anche nel malessere degli strati più bassi della popolazione rurale, nei cui confronti il nuovo governo non aveva saputo (e voluto) adottare misure di contenimento immediato (come proposto invece da politici più accorti – su tutti, il salentino Liborio Romano). Solo a seguito delle prime importanti vittorie del fronte borbonico il governo prese coscienza della necessità di uno sforzo più incisivo. Ma prima di ordinare l’intervento in forze dell’esercito regolare, si lasciò che una parte degli ex garibaldini entrasse nella Guardia Nazionale per contrastare sui territori la guerriglia legittimista.
I metodi più feroci furono usati proprio negli scontri fra briganti e militi della Guardia Nazionale. Meridionali contro meridionali. Talvolta concittadini o abitanti di comuni limitrofi, spinti da visioni politiche profondamente diverse. Da una parte c’era chi voleva difendere il nuovo Stato e le libertà politiche acquisite, e in alcuni casi estenderle, e dall’altra chi intendeva restaurare la monarchia assoluta col ritorno del vecchio re. Se non si riconoscono queste differenze e la loro matrice politica si fa un torto alle donne e agli uomini che hanno creduto in quelle idee, e che per esse hanno sfidato il fuoco nemico – a volte finendo uccisi.
Una guerra civile senza esclusione di colpi attraversò il Mezzogiorno post-unitario, mietendo vittime da una parte e dall’altra – uno scontro le cui sorti furono decise dal superiore spiegamento di forze (non solo militari) dello Stato unitario, interessato essenzialmente a imporre la propria giurisdizione sull’intero territorio nazionale. Nel richiamare il conto dei morti, la mozione per un momento sembra riconoscere il carattere trasversale del conflitto. 20 mila perdite infatti è la stessa cifra stimata dall’economista e storico economico Pierluigi Ciocca mettendo insieme i caduti di entrambi i fronti e i civili assassinati dai briganti e dalle truppe (v. Brigantaggio ed economia nel Mezzogiorno d’Italia, in “Rivista di Storia Economica”, a. XXIX, n. 1, aprile 2013). Evidentemente non è la ricostruzione di Ciocca che avevano presente gli autori del testo – il quale tende a rappresentare i 20 mila come caduti di una parte sola -, ma quella valutazione sollecita alcune domande.
Perché commemorare solo i meridionali che si batterono per il vecchio regime? Perché limitarsi a capovolgere la brutale divisione fra “buoni e cattivi” imposta dalla retorica ufficiale, riabilitando i “briganti” e i loro sostenitori e condannando alla damnatio memoriae coloro i quali li combatterono – e che prima parteciparono a uno dei pochi momenti rivoluzionari che l’Italia ha conosciuto? E’ questo il modo giusto di impostare un discorso pubblico su una delle pagine più scabrose della nostra storia?
Questi interrogativi a loro volta sollevano una questione più generale. Nella diatriba sull’unificazione si riflettono chiaramente tensioni del presente. E il punto di vista di chi denuncia la sottomissione del Sud è evidentemente una reazione uguale e contraria alla narrazione tossica per cui il Mezzogiorno sarebbe stata – e continuerebbe ad essere – la palla al piede del paese, e la sanguisuga delle laboriose province settentrionali. Si tratta in qualche modo del tentativo di serrare i ranghi contro una rappresentazione che ha prodotto danni concreti – su tutti, il venir meno di una politica specifica per le aree a ritardo di sviluppo. Ma evocare una “comunità nazionale” meridionale, contrapposta a quella settentrionale, è il modo più dannoso per affrontare questo problema.
Il Sud ha sperimentato un reale progresso quando la “questione meridionale” è diventata grande questione nazionale, attirando l’attenzione e sollecitando la mobilitazione di parti significative della società italiana. Oggi invece la retorica “sudista” rischia di mistificare le dinamiche che stanno esasperando la distanza fra le diverse parti del paese. Ciò emerge chiaramente se si analizza il rapporto fra governo centrale e territori. Da una parte, agli amministratori in questa fase spetta l’ingrato compito di cercare di “salvare il salvabile”: il loro approccio è necessariamente emergenziale, e legato a un orizzonte geografico circoscritto al rispettivo ambito territoriale. Dall’altra, lo stesso governo negli ultimi anni si è dimostrato poco interessato ad aggredire le ragioni strutturali della crescente frattura del paese, limitandosi a promuovere interventi episodici e disarticolati. In breve, da una parte e dall’altra non c’è la richiesta e la volontà di programmare azioni di lunga durata, ma solo l’urgenza di rispondere a esigenze immediate.
Questa dinamica, che condanna le province meridionali a una subalternità senza uscita, è prodotta da precise condizioni storiche, ma la prospettiva sudista le fornisce uno schema ideologico, e una giustificazione. Da una parte c’è il Sud ancora in credito per l’aggressione subita, dall’altra lo Stato che deve onorare il suo debito storico rispondendo puntualmente alle richieste delle periferie meridionali. Il rapporto fra governo e territori è così rappresentato nella chiave del “risarcimento”. In questo modo la posizione di subalternità del Mezzogiorno viene idealmente ribaltata. Nella realtà gli interventi emergenziali che le diverse comunità meridionali invocano sono meri palliativi, ma nell’ottica sudista rappresentano legittime recriminazioni alla luce di quello che il Sud ancora avanza dallo Stato.
In sostanza, la prospettiva sudista inibisce la possibilità di guardare ai problemi del Sud in un’ottica globale, inquadrandoli cioè nelle dinamiche che attraversano il paese, l’Europa e il mondo – dinamiche che penalizzano il Mezzogiorno d’Italia non diversamente da altre aree periferiche. Questo limite di visione impedisce a sua volta di sviluppare soluzioni adeguate, che necessariamente richiedono una scala più ampia rispetto al ristretto ambito regionale – e ormai persino nazionale – e una strategia di mobilitazione che ponga al centro il tema di come costruire un’alleanza duratura fra i “mezzogiorni d’Europa”.
Ma per liberarci di quella prospettiva così opprimente dobbiamo fare i conti fino in fondo col passato. Partendo dalla consapevolezza che il passato è materiale altamente esplosivo. Va quindi disinnescato, sottraendogli la carica di attualità che qualcuno di continuo prova ad attribuirgli. Per farlo è necessario storicizzare, cioè allontanare da noi e dai problemi del presente gli eventi e i personaggi di altre epoche, per restituirli alla dimensione in cui possano fare meno danni possibile (e magari arrecare qualche beneficio): quella della memoria consapevole. Solo in questo modo, frapponendo fra noi e il passato una coscienza della distanza storica, saremo liberi di muoverci nel presente. Non resta che sperare che questa consapevolezza si insinui fra i banchi dei consigli che saranno chiamati a esprimersi sulla mozione dei Cinque Stelle. E che magari ispiri un serio impegno delle Regioni nel favorire la ricerca e la divulgazione sulla nostra storia.