Classe 1959, torinese, docente di Storia Medievale all’Università del Piemonte Orientale. Alessandro Barbero, autore di numerosi saggi e di pregevoli romanzi, è noto al grande pubblico per la partecipazione ad alcune trasmissioni televisive (Super Quark, AC. DC., Il tempo e la Storia ecc.), e soprattutto per le tante conferenze che, quasi senza sosta, tiene in lungo e largo per il paese. E’ in occasione di una di queste che ci siamo incontrati. Ai piedi della fastosa facciata della basilica di San Martino di Martina Franca, dove il prof. ha tenuto una conferenza lo scorso sabato, abbiamo parlato del suo ultimo libro, “Le parole del Papa” (Laterza), e di alcuni aspetti del “mestiere dello storico” nella società di oggi. Purtroppo il testo non è in grado di rendere la passione che il prof. Barbero mette nel parlare del suo lavoro. Chi lo conosce, può immaginarlo. Agli altri non si può che consigliare di aprire una qualunque delle numerose registrazioni di sue conferenze presenti in rete: non sarà tempo sprecato.
Ne “Le parole del Papa” vengono analizzati i discorsi più significativi di alcuni pontefici, da Gregorio VII (XI secolo) a Paolo VI. A ben vedere, la Chiesa è un’istituzione fondata sulla parola: non ha “divisioni” – per dirla con Stalin –; e anche quando ha esercitato un potere temporale, questo è rimasto circoscritto a entità territoriali molto limitate, a fronte dell’influenza universale che – proprio grazie alla parola – è stata in grado di esercitare. A cosa è dovuta la “potenza” che la Chiesa è riuscita a conferire alla parola?
La Chiesa è una istituzione straordinaria: non tutte le religioni hanno un clero e una chiesa – si pensi all’Islam. Se la nascita del Cristianesimo è stata una grande svolta storica, che ha dato vita al mondo moderno, non è solo perché ha spazzato via le religioni antiche e le ha sostituito con un monoteismo; è anche perché nelle nostre società è comparsa questa istituzione – la Chiesa – e questa classe sociale – il clero – che nel mondo antico non esistevano. E questa istituzione pensa alle anime delle persone più che ai corpi – almeno in teoria –, per cui alle persone deve parlare. Lo scopo della Chiesa è celebrare dei riti per il popolo, ma anche parlare al popolo – per convincerlo, convertirlo, salvarlo. E dunque la parola è centrale nell’azione della Chiesa. E’ interessante vedere come questa istituzione millenaria non è sempre stata uguale a se stessa, e a seconda delle epoche la parola della Chiesa rispecchia la sua situazione in quell’epoca, in quel mondo.
E anche i rapporti di forza con i poteri secolari…
Certo. Questo vale soprattutto per il capo della Chiesa, il Papa, a partire dal Mille – prima il ruolo del vescovo di Roma è diverso. Nel momento in cui il Papa diventa un capo politico, i rapporti politici per lui sono importanti. La sensazione che io ho avuto facendo questo viaggio fra le parole dei papi è che ci sia un movimento quasi hegeliano. Nel basso medioevo, i papi si sentono chiamati a governare il mondo – e hanno un linguaggio di una sicurezza, di una virulenza e di una ricchezza straordinarie. Poi il mondo cambia: arriva la Riforma Protestante, il liberalismo, il libero pensiero. E così la Chiesa per secoli si sente sulla difensiva; e lo stesso linguaggio dei papi cambia: diventa stridulo – è il linguaggio di chi non si sente più in sintonia col proprio tempo. In questo modo la Chiesa arriva, nel XIX secolo, al livello più basso della sua autorevolezza. Il Novecento mi sembra che segni invece un punto di ritorno, la “sintesi”. La Chiesa del Novecento non è quella medievale – così sicura di sé –, però non è neanche quella lamentosa e nemica di tutto del Sette-Ottocento. La Chiesa del Novecento impara di nuovo a dire una parola autorevole perché non ripudia più l’epoca in cui vive. Papi come Giovanni XIII e Paolo VI sono fra gli esponenti di punta della loro epoca per la capacità di dire una parola che esprime quelli che sono i veri grandi problemi del tempo.
Gran parte di queste “parole del Papa” sono polemiche. Si tratta di attacchi agli avversari politici – gli imperatori, su tutti – o ai “nemici della fede” – dagli eretici ai socialisti.
Questo vale fino alla fino alla fine dell’Ottocento. Si pensi a un’enciclica come la Rerum Novarum, che non è soltanto un attacco, ma è un’indicazione di quello che i governi, gli operai, i “padroni” dovrebbero fare. Per le epoche precedenti quello che dice è vero. Anche perché il linguaggio dei papi diventa più eloquente quando attaccano qualcuno. Il punto di avvio del mio percorso è il linguaggio dei papi medievali, che a me colpiva sin da quando ero studente. Oggi noi siamo abituati a una Chiesa che si esprime con un linguaggio moderato, sorvegliato, anche con una certa unzione – che dice e non dice. Per me studente fu una scoperta straordinaria imbattermi in papi che invece le cose le dicevano eccome! Immaginiamo se i papi del Novecento avessero usato contro Hitler il linguaggio che i Papi del Medio Evo usavano contro l’imperatore Federico: sarebbe cambiato il mondo.
Col passare del tempo nei discorsi dei Papi vanno diradandosi i riferimenti diretti ai testi sacri, e il linguaggio si fa più “secolarizzato”. Si tratta soltanto di un’esigenza comunicativa o alla base di questa evoluzione c’è qualcosa di più profondo?
C’è la capacità di adeguarsi allo “spirito del tempo”. Fino all’Ottocento il papato non prende atto completamente del mondo attuale – che odia e teme. I papi dell’Ottocento vedono la modernità e la confondo con le eresie medievali, ma sono categorie invecchiate. Per questo a me è sembrato molto interessante mappare come i papi, a partire dalla Rerum Novarum, cominciano a parlare di “capitale”, “lavoro”, “scioperi”, “disoccupazione”, “proletariato”, “padroni”. Quello significa prendere finalmente atto di stare in un mondo che è cambiato. I papi del Medio Evo invece erano abituati a pensare che nella Bibbia – che loro conoscevano a memoria – ci fosse già tutto, per cui bastava conoscerla per capire il mondo e prevedere il futuro.
Nel suo “La guerra e le false notizie”, Marc Bloch analizza la formazione di credenze che finiscono col diventare verità per grandi gruppi di persone. Oggi, con la diffusione di internet, il meccanismo di propagazione delle “false notizie” sembra essere diventato ancora più potente, e proprio la Storia è uno dei campi più interessati – e danneggiati – da questo fenomeno. Di fronte a tutto questo che ruolo può svolgere lo storico?
Il ruolo dello storico in questa nostra epoca è duplice. Da una parte, lo storico deve continuare a fare quello che ha sempre fatto: fare ricerca, discutere coi colleghi e pubblicare le conoscenze a cui è giunto in forma scientifica – non necessariamente per il grande pubblico. D’altra parte è indubbio che oggi ci sia una pressione sugli storici perché parlino anche al grande pubblico. E allora chi di noi ha voglia – e si scopre il talento di farlo – è giusto che davanti al grande pubblico affronti soprattutto i temi che sono più brucianti. Si pensi alla storia dell’immigrazione. Si tratta inevitabilmente di discorsi che attraggono l’interesse della gente, che li percepisce come elementi utili a orientarsi nel presente. Ed è tanto più giusto in un paese come l’Italia, dove siamo ignorantissimi ma non dimentichiamo mai niente; e, di conseguenza, su vicende come l’Unità d’Italia, il Fascismo, la Resistenza, la gente ha idee vaghissime ma molto forti.
Di recente ho visitato il “Museo Lombroso”, nella “sua” Torino. Trovo che in quel caso sia stata fatta un’operazione intelligente di divulgazione di una delle pagine più controverse della nostra storia. Il visitatore è accompagnato lungo un percorso critico, che contestualizza la figura e l’opera di Lombroso non concedendo nulla alla giustificazione “storicista”, ma anzi ponendo una serie di interrogativi sul tema dell’esposizione – il rapporto fra ideologia, scienza e politica. Al netto delle polemiche che alcuni gruppi hanno mosso al Museo quel modello sembra offrire una possibile chiave per avvicinare il grande pubblico al lavoro dello storico, mettendolo di fronte alla complessità e alla profondità della Storia. Questo approccio alla divulgazione la convince? E sarebbe replicabile anche in altre circostanze?
In quel caso il tema si prestava particolarmente bene all’operazione che è stata fatta perché Lombroso ha lasciato tutte le sue collezioni – i teschi, gli oggetti fabbricati dai carcerati, il suo stesso scheletro. Non tutto però si può trasformare in museo. Oggi c’è una tendenza a realizzare musei quasi del tutto virtuali, mentre quel museo è pieno di oggetti, e secondo me bisognerebbe cercare di tenere la barra in questa direzione. Dopodiché il museo è uno dei modi per provare a parlare a un pubblico più ampio. Rimane il fatto che quella operazione è oggetto di interrogazioni parlamentari che si scagliano contro una cosa che non conoscono e non hanno capito. E’ una brutta cartina di tornasole del livello del dibattito nel nostro paese.
Lei si è associato alle critiche espresse da Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera a proposito dei test di Storia proposti nell’ultimo concorso per la Scuola. In che modo dovrebbero essere impostate le prove per selezionare buoni insegnanti di Storia?
Intanto bisognerebbe accettare l’idea che il paese ha bisogno di un certo numero di insegnanti, e che fare l’insegnante è un lavoro difficilissimo, pesantissimo. Gli insegnanti quindi bisognerebbe assumerli, e non lasciarli vegetare nel precariato per decenni credendo di risparmiare chissà cosa. Dopodiché bisognerebbe avere concorsi regolari: ogni anno va in pensione un certo numero di insegnanti, ogni anno ne assumiamo altrettanti. Pensi che ci sono paesi dove succede! A quel punto il concorso può anche essere severo, sempre tendo conto che quello dell’insegnante è un mestiere di massa e mal pagato, e quindi non si può pretendere troppo dai candidati. Certo, è giusto chiedere una buona conoscenza del mestiere e delle materie, però io non riesco a capire come un Ministero, per reclutare degli insegnanti di Storia delle scuole, abbia prodotto delle prove che né io né nessun mio collega universitario mai e poi mai avremmo saputo superare.