Martedì è stato approvato in via definitiva il disegno di legge sui cosiddetti “ecoreati”. Il provvedimento, votato da un’ampia maggioranza e sostenuto da importanti associazioni ambientaliste (Legambiente, WWF ecc.), è stato accolto con veementi polemiche da una parte del mondo ecologista e della stessa magistratura. Vi proponiamo un’analisi sul testo per capirci qualcosa in più.
E’ fresco di approvazione in Senato il disegno di legge sui reati ambientali (cosiddetti “ecoreati”). Una norma che, nelle intenzioni dei suoi promotori, mira a disegnare un quadro finalmente organico della disciplina in materia di delitti contro l’ambiente, inasprendo sanzioni per le relative violazioni ed introducendo figure di reato del tutto nuove nel nostro ordinamento quali, ad esempio, l’inquinamento ambientale, il disastro ambientale, i delitti colposi contro l’ambiente, il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo. Fino ad oggi, infatti, per perseguire determinate condotte, le autorità sono state spesso costrette ad adattare a situazioni concrete fattispecie di reato assolutamente generiche, e magari approvate a suo tempo con intenti affatto diversi da parte del legislatore.
L’approvazione del testo è stata accompagnata non solo da giudizi positivi, ma anche da aspre polemiche. Una parte del mondo ambientalista (Verdi e Peacelink su tutti), nonché alcuni giuristi di riconosciuta autorevolezza in materia (uno su tutti, Gianfranco Amendola, procuratore generale di Civitavecchia e protagonista di numerose inchieste in materia ambientale, nonché ex parlamentare europeo proprio nelle file dei Verdi), hanno espresso alcune perplessità sul testo di legge.
Questo contributo si ripromette di affrontare proprio le parti della legge che sono oggetto di alcune delle critiche più accese, e che sono diventate in questi giorni oggetto di dibattito anche e soprattutto tra i non addetti ai lavori, per l’ampia diffusione che tali prese di posizione hanno avuto sui social network e sulla rete in generale. Non si ripromette, invece, di esprimere alcuna considerazione di carattere politico; non vuole esaminare il lavoro di compromesso che ha portato al testo così come è stato approvato; non ha intenzione di stabilire se sarebbe stato possibile approvare un testo più efficace.
I giudizi che verranno esposti, inoltre, non vogliono assolutamente ergersi a lezioni di diritto o a verità rivelate; si tratta, appunto, di un contributo, una raccolta di impressioni suscitate da una prima lettura del testo, con il massimo rispetto per chi ha espresso pareri radicalmente discordanti. Ritengo che non possa farsi molto di più di fronte ad una legge appena approvata e che, pertanto, non ha ancora conosciuto una sia pur minima applicazione pratica.
Al riguardo, invece, suscita più di qualche perplessità l’atteggiamento di alcune parti intervenute nel dibattito che, spesso e volentieri senza una adeguata competenza in materia, non hanno esitato ad utilizzare toni e giudizi di una perentorietà invidiabile, e a scatenare un clima da caccia alle streghe (con tanto di “liste di proscrizione” dei parlamentari che hanno votato favorevolmente all’approvazione del testo di legge) divenuto ormai troppo usuale nella nostra città.
Un avverbio di troppo?
Le critiche più aspre si sono concentrate sul nuovo articolo 452 quater del codice penale, introdotto dalla legge appena approvata, che disciplina la figura del disastro ambientale. Tale articolo recita testualmente:
Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente: 1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
Dure reazioni ha suscitato la presenza nel testo dell’avverbio “abusivamente“. Secondo l’interpretazione che ne hanno dato alcuni, infatti, tale avverbio escluderebbe la punibilità di tutte quelle condotte poste in essere da soggetti provvisti di un’autorizzazione a produrre e a funzionare, che non sarebbero pertanto abusivi e non potrebbero essere giudicati per disastro ambientale. Tale interpretazione non mi sembra condivisibile. Il primo aspetto da evidenziare, infatti, è che la norma non fa riferimento ad attività esercitate abusivamente, ma ad un disastro ambientale provocato abusivamente. In altri termini, può ben accadere che l’attività economica esercitata dal soggetto inquinatore sia autorizzata, ma non siano autorizzate le condotte che provocano il disastro ambientale, perché, come capita spesso, tali condotte travalicano i limiti consentiti dalla relativa autorizzazione amministrativa.
Alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle (che ha votato in parlamento a favore dell’approvazione della legge), a confutazione di tali tesi allarmistiche, hanno richiamato le sentenze della Corte di Cassazione che, riguardo a reati in materia di gestione dei rifiuti, hanno chiarito che per attività abusiva debba intendersi non solo quella effettuata senza le autorizzazioni necessarie, ma anche quella effettuata violando le prescrizioni o i limiti delle autorizzazioni stesse, nonché sulla scorta di autorizzazioni illecite. E’ stata giustamente richiamata la sentenza della Cassazione Penale n. 358 del 2007, ma anche la più recente n. 46189 del 2011 ribadisce lo stesso principio. Non si vede, pertanto, per quale motivo ci si dovrebbe discostare da questo consolidato orientamento,
Tali principi, d’altronde, sono costantemente già applicati in merito a varie fattispecie di reato fino ad oggi utilizzate per punire le condotte dannose per l’ambiente. Nel caso a noi tutti noto del “processo Ilva“, tra le varie condotte contestate, ad esempio, a Emilio, Nicola e Fabio Riva, a Luigi Capogrosso ed a Girolamo Archinà, vi è quella di aver concordato con funzionari ed incaricati di vari uffici il contenuto ed il rilascio di documenti ed autorizzazioni; l’attività di Ilva, pur formalmente autorizzata, può tranquillamente essere considerata abusiva alla luce dei principi sopra richiamati.
Interessante mi pare, inoltre, il contributo fornito, in sede di audizione parlamentare, dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, che, in merito all’utilizzo del concetto di abusività, lo ritiene idoneo
a perseguire le finalità di protezione dell’ambiente perché, con tale clausola di “chiusura” della fattispecie, consente di sanzionare ogni condotta dannosa, pur in assenza di disciplina di settore e consente all’interprete di adeguare la fattispecie alla realtà concreta, anche in relazione a condotte future in ambito non espressamente disciplinato. Inoltre, la norma ha un indubbio effetto di “prevenzione generale” in quanto induce i privati a non assumere condotte dannose, anche se formalmente rispondenti alla disciplina di settore, e ad attenersi al rispetto dei principi di “precauzione e prevenzione” espressamente previsti in materia dal legislatore comunitario e dall’art 301 decreto legislativo 152/06.
Si badi che tali considerazioni venivano svolte quando il testo del disegno di legge prevedeva la punibilità per le condotte poste in essere, oltre che abusivamente, in “violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale“, formulazione che consentiva certamente maggiori margini di impunibilità rispetto alla formulazione definitiva del testo, nella quale è stato mantenuto solo il famigerato avverbio.
L’irreversibilità dell’alterazione
Altra critica mossa al testo di legge ha riguardato la presunta necessità che l’alterazione cagionata all’ecosistema debba essere irreversibile per poter essere punibile, con conseguente drastica riduzione del campo di applicazione della norma, in virtù del fatto che la irreversibilità della alterazione sussisterebbe in un numero limitatissimo di casi.
Anche tale critica non pare avere solide basi, posto che il testo approvato punisce non solo le alterazioni irreversibili, ma anche quelle “la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali“, nonché, in generale, “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo“, rendendo pertanto certamente ampio il campo di applicabilità della norma.
L’applicabilità retroattiva della norma e gli effetti sui processi in corso
Si è paventata la possibile applicabilità retroattiva della norma, con conseguente azzeramento di processi ed inchieste già in corso.
Nel nostro ordinamento, infatti, vige un principio, sancito dall’art. 2 del codice penale, secondo cui, in caso di entrata in vigore di una legge diversa da quella vigente al momento della commissione del reato, l’imputato ha diritto a vedersi applicare la legge a lui più favorevole tra le due (c.d. principio del “favor rei”).
Da tanto, i detrattori della norma fanno discendere la possibile applicabilità della nuova disciplina ad alcuni processi attualmente in corso (tra cui lo stesso processo Ilva), poiché ritenuta più favorevole rispetto alla precedente.
Anche tale preoccupazione non sembra condivisibile. In primo luogo, il nuovo art. 452 quater del codice penale si apre con la locuzione “fuori dai casi previsti dall’articolo 434” (articolo la cui violazione viene contestata, tra le altre, proprio nel processo Ilva), lasciando pertanto intendere che le due fattispecie sono differenti ed entrambe in vigore.
Inoltre, il nuovo art. 452 quater dispone pene ben maggiori rispetto a quelle dell’art. 434, per cui la sua applicazione retroattiva violerebbe il principio del “favor rei”.
Riassumendo, anche se effettivamente l’avverbio “abusivamente” dovesse rendere non configurabile il nuovo disastro ambientale nel processo Ilva, la normativa appena approvata non potrebbe trovare ingresso in tale processo, poiché il reato configurabile sarebbe pur sempre il disastro “innominato” (la Corte Costituzionale, con sentenza n. 327 del 2008, ha chiarito l’applicabilità della figura del disastro “innominato” in ogni caso in cui non sia configurabile altro tipo di disastro); ma anche se si ritiene che il nuovo reato di disastro ambientale dovesse essere astrattamente sussistente nel caso Ilva, la nuova normativa non sarebbe comunque applicabile al processo in corso, poiché prevede sanzioni ben più gravi di quella precedente.
In definitiva, in un caso o nell’altro non si prospetta nessuna alterazione nell’iter del processo Ilva. Ogni allarmismo in questo senso è quanto meno fuori luogo.
Emanuele Franco