Fausto Bertinotti è stato fra i primi (a Sinistra, ma non solo) a cogliere le novità dell’apostolato di Jorge Mario Bergoglio, valorizzandole in funzione delle sfide del tempo presente: prima fra tutte, il dilagare dell’ideologia liberista. Nel libro-intervista Sempre daccapo, curato da don Roberto Donadoni, direttore editoriale di Marcianum press (editrice di riferimento del patriarcato di Venezia), l’ex segretario comunista chiarisce i presupposti politico-culturali del suo interesse per i movimenti in atto all’interno della Chiesa Cattolica. L’idea generale che si ricava dalle risposte di Bertinotti è che una rifondazione della politica intesa come prospettiva di trasformazione (Bertinotti parla esplicitamente di “rivoluzione”) non può prescindere da un continuo dialogo con le istanze del Cristianesimo, e quindi con le forze che lo incarnano storicamente (a cominciare dalla Chiesa). Tale convinzione poggia su una lucida analisi del presente e sul tentativo di venirne a capo disegnando un campo di forze in grado di promuovere una radicale alternativa all’esistente.
La religione liberista
Il dato da cui muove l’analisi di Bertinotti è il carattere omnipervasivo del liberismo. Non semplicemente dottrina economica, o insieme di politiche ideologicamente orientate, ma vera e propria religione. Nella fase che stiamo attraversando esso sta penetrando sempre più nelle viscere della società: la competizione economica non si presenta più soltanto come dinamica caratteristica dei diversi mercati di beni e servizi, ma va diventando un modo di essere, l’abito fondamentale degli esseri umani nel tempo presente (in un libro di grande pregio Laval e Dardot l’hanno definita La nuova ragione del mondo). Tale mutazione antropologica è tanto più radicale, nota Bertinotti, in quanto punta a rimuovere le domande sul senso dell’agire (perché faccio questo?), conferendo ai comportamenti ispirati dalla competizione una naturalità intrinseca. Si tratta di una seconda natura che vorrebbe abolire e sostituire la prima, modellando di sé l’intero universo delle relazioni umane[1].
In relazione a questo processo la politica svolge, al contempo, una funzione passiva e attiva. Avendo espulso dal suo ambito ogni istanza di trasformazione dell’esistente essa si limita, da una parte, a registrare i rapporti di forza che caratterizzano in questa fase la società e il dibattito culturale; dall’altra però si fa propagatrice del discorso pubblico e delle dinamiche sociali ispirate dalla religione liberista.
Quello che si svela davanti agli occhi dell’osservatore attento (e Bertinotti certamente lo è) è dunque un universo totalitario, infinitamente più potente del capitalismo novecentesco. Per certi versi, è la materializzazione dell’incubo che i teorici della Scuola di Francoforte delinearono lucidamente nel rapportarsi al Nazismo: una società in cui il capitalismo ha vinto su tutti i fronti, sgominando i suoi avversari, annullando le mediazioni delle sfere politica e culturale e plasmando a propria immagine tanto lo Stato quanto i rapporti umani[2].
Rivoluzione e Costituzione
Bertinotti tuttavia non si limita a “guardare negli occhi il mostro”. Il grosso dell’intervista è anzi dedicato alla elaborazione dell’alternativa possibile. L’autore non affronta neanche incidentalmente i temi all’ordine del giorno a sinistra: non accenna a “costituenti”, convergenze, alleanze ecc. Non cita neanche una volta – anche solo per criticarli – i protagonisti della vita politica contemporanea né le forze che la animano. A ben vedere, non si tratta soltanto della conseguenza del rifiuto a parlare di politica posto in premessa davanti alla richiesta di intervista di don Donadoni. In realtà, come si è già visto e ancor meglio si vedrà a breve, la politica è la trama fondamentale del libro. Bertinotti sembra piuttosto lasciare intendere che, nella fase di subalternità in cui si trova la politica oggi, la priorità va data ai “fondamentali”, mettendo in secondo piano la tattica quotidiana.
Tale esigenza nasce dalla necessità di rifondare la politica stessa come prassi di trasformazione dell’esistente, che dunque assuma l’orizzonte della “rivoluzione”. Per Bertinotti tuttavia non si tratta di riproporre le parole d’ordine della sinistra comunista del XX secolo: la rivoluzione non si identifica con la realizzazione di un improbabile “paradiso in terra”, ma rappresenta un processo che pone le condizioni materiali “per il pieno sviluppo della persona umana”. Il richiamo all’articolo 3 della Costituzione a questo proposito è esplicito e ripetuto, e non a caso: esso rappresenta infatti uno dei prodotti migliori della breve ma intensa stagione di dialogo fra le diverse forze politico-culturali (soprattutto cattolici e social-comunisti) che hanno contribuito alla fondazione della Repubblica.
L’attualizzazione di quel passaggio consente a Bertinotti di porre l’attenzione sulla dialettica fra dimensione della politica, la cui autonomia è rimarcata con forza dall’autore, e sfera etico-morale. Vi sono momenti nella Storia, e la stesura della Costituzione è stato uno di questi, in cui le differenti istanze morali presenti nella società invadono il confine della politica e contribuiscono a definirne l’orizzonte con domande di senso, liberando la politica stessa dal freddo realismo a cui era stata ridotta. Di fronte alla rimozione del senso operata dalla nuova religione liberista appare dunque urgente aprire una fase di questo tipo. Ma a quali soggetti spetta questo compito e quali istanze morali essi possono avanzare?
Aspettando i “barbari”
Alla prima di queste domande Bertinotti risponde indicando coloro i quali stazionano “fuori dal recinto” del liberismo, i “barbari”. Questi sono sia “gli sconfitti” nella grande competizione che anima la società contemporanea sia quelli che si pongono consapevolmente “all’opposizione” di questo ordine delle cose e cercano di costruire sacche di resistenza. Bertinotti guarda con attenzione a tutti i tentativi di liberazione dal dominio del mercato: i percorsi di solidarietà e di mutualismo, di costruzione di forme di socialità e di economia alternative alle logiche del profitto. L’autore le pone in parallelo ai primi tentativi del movimento operaio ottocentesco (le case del popolo, le cooperative di produzione e di consumo ecc). Si tratta della reazione al totalitarismo capitalista della parte più aggredita della società, e nondimeno di un terreno fondamentale di incontro, dialogo e necessaria contaminazione fra tradizioni politico-culturali diverse. A questo proposito, Bertinotti riconosce l’oggettivo vantaggio dei cattolici: la “carità” è al centro della loro pratica religiosa, un impegno che il fedele è chiamato a esplicare quotidianamente. Tuttavia, nota l’autore, per costruire una politica di trasformazione è necessario che queste esperienze superino l’orizzonte angusto della prassi fine a se stessa e si connettano attorno a una nuova grande Utopia.
È su questo tema che il confronto con le istanze della fede si fa più intenso. Bertinotti recupera la lezione di alcuni grandi maestri, da Walter Benjamin a Ernst Bloch, che sul rapporto fra marxismo e teologia hanno a lungo riflettuto. La sfida fondamentale che si pone a chiunque, credente o meno, oggi voglia rifondare la politica è la riscoperta di un piano di trascendenza. Senza questa dimensione le azioni del quotidiano, anche le più meritorie, rischiano di non lasciare nessuna eco nella Storia, perdendosi nell’indistinto assieme al gesto che le ha prodotte. L’Utopia è, al contempo, l’attesa e la prefigurazione di quello che ancora non c’è, l’anelito che consente alla coscienza di non piegarsi anche nei momenti più difficili.
Una nuova spiritualità
Le conclusioni cui giunge Bertinotti impegnano aspramente sia credenti che non credenti. I primi sono invitati a riscoprire dimensioni della propria coscienza troppo a lungo atrofizzate, in particolare quelle che aspirano alle “domande ultime”, alla ricerca del “senso”; i secondi sono portati a interrogarsi sul rischio di ridurre la fede a suppellettile dell’attività quotidiana, cui ricorrere solo in caso di bisogno. Per entrambi si pone l’urgenza di un nuovo impegno spirituale nel mondo, cioè della riapertura di un canale diretto fra coscienza e realtà alla luce di una nuova prospettiva di liberazione dell’essere umano. È infatti solo dalla dialettica fra questi poli che può trarre forza il tentativo di trasformazione dell’esistente, che altro non è che lo sforzo per realizzare nelle cose i principi che la coscienza riconosce come costitutivi della prima natura umana. E, alla base di tutto, solo quella dialettica può animare la critica implacabile all’esistente, che oggi si impone per non diventare osservanti inconsapevoli della religione liberista – il paganesimo dei nostri tempi.
In definitiva, ai militanti di oggi si rende necessario sperimentare su se stessi e, in seguito, farsi portatori di una nuova spiritualità, che sfidi l’ordine del mondo sulle questioni di senso, che osi domandare se è degna di essere vissuta una vita ingabbiata dal capitalismo.
[1] A ben vedere, la microeconomia contemporanea (disciplina profondamente ispirata dai dogmi liberisti) concentra la sua attenzione sui più disparati aspetti della vita quotidiana, cercando di costruire modelli di comportamento fondati sul principio dell’homo oeconomicus. Alcuni di questi tentativi possono far sorridere, ma rispondono a un’esigenza di colonizzazione dell’immaginario funzionale al processo di sussunzione dell’umano che il capitalismo liberista sta portando avanti in questa fase.
[2] A questo proposito, un autore da rileggere è senz’altra Friedrich Pollock. In italiano v. Teoria e prassi dell’economia di piano: antologia degli scritti, 1928-1941 (a cura di Giacomo Marramao), Bari 1973.