Se fosse stato diverso, il movimento per il clima avrebbe tentato di sfidare l’ideologia estrema che sta ostacolando tante azioni sensate, avrebbe unito le forze con altri settori per dimostrate che il potere delle corporations private, lasciato senza freni, rappresenta una grave minaccia per l’abitabilità del paese.
Naomi Kein, This change everything. Capitalism vs. the Climate
Le vicende dell’ILVA potrebbero e dovrebbero essere l’occasione per intavolare una discussione sulle nefaste conseguenze economiche, sanitarie e sociali delle politiche macroeconomiche neoliberiste – basate su assiomi assurdi -, implementate nell’Europa della Troika e mai così puntualmente applicate da nessun altro paese sovrano o federazione di paesi indipendenti (USA inclusa). Si tratta di riflessioni, del resto, già ampiamente sviluppate da movimenti ambientalisti in tutto il mondo e in Italia: un po’ meno a Taranto, la città che ne avrebbe più bisogno alla luce di alti tassi di mortalità, povertà e disoccupazione. Ci occuperemo qui del presupposto ideologico alla base della negazione dell’intervento pubblico, rimandando ad un supplemento specifico l’analisi delle grandezze economiche in gioco e l’analisi della tipologia di intervento.
A coloro i quali affermano che non si può nazionalizzare ILVA perché, nell’Europa del “libero mercato”, i trattati non consentono gli aiuti di Stato – PeaceLink ‹‹ha informato la Commissione Europea delle criticità che a suo avviso potevano costituire gli «aiuti di Stato» concessi a ILVA›› – si possono eccepire numerose osservazioni, tanto di carattere politico, quanto di carattere squisitamente economico – dal momento che ci si domanda quale convenienza ci sia nel mantenere in vita uno “zombie dell’acciaio” qual è ILVA.
Pima di tutto: a quale Europa ci riferiamo e di quale Europa ci fidiamo? L’Europa del Fiscal Compact, quella del Dual Pack oppure quella del Pareggio di Bilancio in Costituzione? L’Europa che vuole i frutti con una dimensione minima e massima (e manda al macero gli altri) o a quella che dichiara il Parmesan tedesco in tutto e per tutto simile al Parmigiano Reggiano? In attesa di capire cosa succederà con l’implementazione del T.T.I.P (sulla cui matrice ideologica questa Europa è stata creata), è forse il caso di andare a rileggere una lucidissima analisi di Luigi Pandolfi – un po’ datata (inizio 2014) ma corroborata da dati statistici significativi: solo in termini di spesa per welfare e sanità, l’Europa ha preteso tagli per 230 miliardi di Euro dal 2008 al 2013 in Spagna, Irlanda, Italia, Grecia e Portogallo e sono tagli “strutturali”, cioè riduzioni di spese per servizi essenziali destinate a non essere più cancellate (in Italia destinate, anzi, ad aumentare con l’ultima manovra). E se qualche liberal-ambientalista sta pensando “Gli Stati avevano sprecato troppo prima”, si potrebbe rispondere che il salvataggio di patrimoni privati con soldi pubblici per diverse centinaia di miliardi di euro è un dato ormai accertato da tutta la letteratura scientifica mondiale: basti pensare alle banche. Questa enorme redistribuzione al contrario di ricchezza è stata orchestrata da Commissione Europea (quella alla quale Peacelink chiede giustizia), BCE e Fondo Monetario Internazionale, insomma: si tratta della stessa Troika che taglia i medicinali gratuiti agli ammalati di cancro greci per “salvare” la Grecia (in realtà per salvare le commesse tedesche in Grecia); è la troika che abbatte la nostra già bassa spesa sociale, impoverendo milioni di persone, che però è “angelo custode” dei tarantini inquinati.
Questa Europa, dice ottimamente Colin Crouch, è il trionfo del “liberismo reale”, cioè quel ‹‹miscuglio di pressioni esercitate sui governi dalle imprese e dal dispiegamento di ricchezza aziendale; questo è il liberismo del terzo tipo: produce un’economia politicizzata molto distante da ciò che gli economisti intendono per economia liberale, è un sistema di governo sbilanciato dal potere della plutocrazia tanto da compromettere gravemente il concetto di democrazia liberale››[1]. In soldoni: i politici europei perseguono gli obiettivi particolari di gruppi di interesse privati già molto forti che, garantendosi ulteriori margini di profitto attraverso l’attività di lobbing politica, aumentano e accentrano a dismisura capitale e soldi nelle proprie mani: è il trionfo di monopoli ed oligopoli enormi che comprano appoggi politici, concentrano le produzioni in particolari luoghi distruggendo la capacità produttiva “in eccesso” delle aree periferiche, ne depredano le risorse ambientali, riducono il reddito potenziale per i decenni a venire e, dato il legame diretto che esiste tra reddito ed occupazione, creano disoccupazione ovvero l’ “esercito di riserva a basso costo” pronto a lavorare per un tozzo di pane. Emiliano Bracaccio spiega benissimo questo processo di “germanizzazione dei capitali” o “mezzogiornificazione dell’Europa” durante una giornata seminariale organizzata alla Camera dei Deputati dal M5S – giornata della quale evidentemente i seguaci 5 stelle di Taranto non erano informati – e spiega molto bene perché, ad un certo punto, anche le aziende e realmente competitive possono essere spazzate via da questo processo di distruzione, creando aree a completa desertificazione industriale (il Centro-Sud italiano), mentre le produzioni degli acquirenti sono trasferite in aree ad alta concentrazione di capitali (l’ex Germania Occidentale, per esempio).
Un esempio italiano attualissimo nel settore degli acciai è la AST, Acciai Speciali Terni, l’unico sito di acciai speciali italiano, uno dei più produttivi al mondo, che sta chiudendo evidentemente non per mancanza di commesse o per la crisi del settore ma perché la società finlandese Outokumpu è stata costretta a rivendere gli impianti alla tedesca Thyssen dal momento chel’Antitrust europeo ha deciso che i finlandesi, con l’acquisto di AST, avrebbero creato una posizione dominante nel settore. Risultato: i tedeschi hanno deciso di concentrare la produzione in Germania ed in Italia 2600 persone più l’indotto saranno a breve a spasso. Nei piani di Outokumpu, data la qualità dei prodotti di Terni, la AST avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della produzione di acciaio inox nel Mondo: evidentemente il “libero mercato” è lo specchietto delle allodole per ingenui dietro cui si nascondono strategie aziendali decise sulla base di acerrima lotta oligopolistica. Altro esempio sanguinoso è Piombino, che produceva acciai speciali lunghi per la costruzione di rotaie: Severstal ha chiuso e ci siamo giocati la possibilità di manutenere la nostra rete ferroviaria (e di costruirla, eventualmente) senza impore acciaio dall’estero, con 4000 operai già a spasso; altro servizio che, con tante grazie, ci verrà reso dal produttore tedesco. Due concorrenti europei in meno (con capitali lasciati a marcire in Italia) con il sigillo delle istituzioni europee che ci proteggono. Ci si chiede: AST andrebbe nazionalizzata o lasciata fallire? La Germania, per esempio, non ha lasciato fallire la stracotta Commerzbank (100 miliardi di euro a fondo perduto) e ha stanziato 259 miliardi di Euro in 4 anni per le proprie banche, non ha lasciato fallire Opel, che era in perdita nel 2009 e, dopo investimenti importanti, oggi sforna modelli interessanti, tecnologicamente avanzati e molto venduti. Nel silenzio assoluto è passato il salvataggio di Peugeot, casa automobilistica letteralmente nazionalizzata dallo stato francese (che ne ha il controllo), con l’importante investimento di un altro stato, quello cinese, e la benedizione della Commissione Europea. La KFW tedesca – la nostra Cassa Depositi e Prestiti – ha il 31% di Deutsche Telekom 5.500 dipendenti contro i 500 della nostra CDP, mentre l’amministratore delegato di Volkswagen – non di Fiat – ha dichiarato a Gennaio 2014 «Senza l’aiuto o l’intervento dei Governi molte case europee non saranno in grado di sopravvivere».
Il lettore avrà capito che il concetto di “libera concorrenza” gradita agli oligopoli europei somiglia un po’ alla creta: può essere plasmata ad uso e consumo di chi ha interesse a plasmarla. Scusateci se, dal nostro punto di vista, rivolgersi alle istituzioni di chiara matrice liberista per risolvere problemi strettamente legati al modo capitalistico di produzione può non sembrare una buona idea, almeno dal punto di vista della coerenza: è un po’ come chiedere ai nostri carnefici di venirci a salvare. A maggior ragione poi, quando nelle posizioni apicali di queste istituzioni ritroviamo personaggi semplicemente inquietanti: basti citare Juncker (coinvolto in prima persona nello scandalo dell’elusione fiscale delle multinazionali con sede legale in Lussemburgo, il suo paese) ovvero Katainen, Georgieva e Dombrovskis. Non ci rassegnamo all’evidenza che le associazioni ambientaliste di Taranto sostengano fervidamente il mantra mainstream della “superiorità del libero mercato”: abbiamo la speranza di credere che si tratti di un errore in buona fede perché, come ricorda Naomi Klein, l’inquinamento è un prodotto di scarto del capitalismo che non può essere affrontato agendo nel brodo culturale che lo ha generato; non può essere risolto da istituzioni che, lungi dall’essere gli “angeli custodi di Taranto” (definizione Peacelink) sono piuttosto gli esecutori spietati di quelle politiche di austerità e flessibilità che hanno ridotto l’Europa, l’Italia e, in particolare, il nostro Sud a quell’ammasso fumante di macerie materiali ed umane che oggi è: ce lo dice il Rapporto Svimez 2014.
I dati allarmanti del rapporto presentano uno scenario socio economico desolante (lo vedremo nella seconda parte) e la ricetta invocata a gran voce dagli economisti Svimez è solo una : investimenti pubblici in infrastrutture, capitali fissi e know-how (formazione), perché solo lo Stato può investire quando i consumi sono depressi e i privati non mettono sul piatto un solo euro di investimenti anche se i tassi di interesse sono a zero. Perché in Germania,a Duisburg, si è potuto abbinare la bonifica dei territori inquinati alla riconversione ecosostenibile di un impianto siderurgico da 9 milioni di tonnellate d’acciaio ed in Italia non si può? E’ questo che pretendiamo da uno Stato per troppo tempo assente.
Se la “mancanza di risorse” è una scusa risibile perché ‹‹il vincolo del 3 per cento che può essere superato se solo politicamente lo si vuole›› (Roberto Mania, Repubblica Affari&Finanza del 10/11/2014), è un’ottima notizia la decisione da parte di uno Stato in-e-sis-ten-te di intervenire direttamente a Taranto attraverso Cassa Depositi e Prestiti – chi si preoccupa dei risparmi degli italiani deve sapere che, com’è noto a chi studia economia, il risparmio si crea se c’è reddito, non se c’è desolazione economica – prima che ILVA sia svenduta per un tozzo di pane ad Arcelor Mittal o altri competitor. Non è interessante capire attraverso quale alchimia societaria lo Stato si muova, quanto accertarsi che lo faccia ora, quando ormai l’Italia ha perso il 25% di capacità produttiva e lo spettro greco è dietro l’angolo. E’ un’ottima notizia leggere che importanti esponenti del governo dello scandaloso decreto Sblocca-Italia dichiarino “è ora che lo Stato si assuma le sue responsabilità senza dare deleghe in bianco ai privati”. I privati hanno fallito, rubato ed inquinato: è ora che si facciano da parte; a Taranto hanno sbagliato tutti i governi, che hanno permesso una catastrofe umanitaria assurda (basta farsi un giro al reparto oncologia del Moscati): non è un buon motivo per non sollecitare un intervento statale di altro tipo.
Alla luce delle cifre in gioco (che analizzeremo nella seconda parte di questa pubblicazione) e del continuo enorme spreco di risorse e soldi che un’endemica sottoccupazione e una disoccupazione (ben al di sopra del 12,6% dichiarato) comportano – si tratta di decine di miliardi ogni anno- , appare ridicolo l’ammontare delle sanzioni per probabili eventuali procedure di infrazione che la Commissione Europea comminerebbe all’Italia sulla base di aiuti di Stato all’ILVA atti a distorcere la concorrenza. Tutto ciò soprattutto se si considera l’enorme distruzione di ricchezza umana perpetrata in nome delle “stabilità di bilancio” che da anni costringe i cittadini italiani a sacrifici immani per impegnarsi in una fatica di Sisifo senza senso. Attualmente l’Italia è sanzionata per 102 procedure di infrazione ancora aperte nel 2014, contro una sessantina di Germania e Francia. Basta navigare per qualche minuto sul sito della Commissione Europea per rendersi conto che nel solo mese di Settembre 2014 sono stati decisi 39 pareri motivati e 4 deferimenti alla Corte di Giustizia, mentre le decisioni totali della Commissione sono state 147 ; è un turbillon di procedure aperte e chiuse che dimostra la facilità con cui i paesi europei decidono, eventualmente, di non rispettare regole, che talvolta sono obiettivamente balorde, pagandone il prezzo.
L’osservatorio antitrust europeo quantifica in cica 220 milioni di Euro l’ammontare delle sanzioni irrogate per procedure di infrazioni aperte nei confronti dell’Italia fino a Ottobre 2014 relativamente al proprio settore di competenza, in più di 600 milioni di Euro le sansioni irrogate alla Germania: gli Stati europei non rispettano i patti dove, come e quando vogliono, a tutto vantaggio di oligopoli privati. Quindi non è che “non si può” infrangere le regole europee perché lo si fa continuamente: nazionalizzare si può, a patto che i vantaggi della nazionalizzazione vadano ai cittadini e non a rimpinguare interessi privati (con distruzione di posti di lavoro) come succede con l’affaire CDP-Poste – Alitalia. Si tratta di una scelta: ma questa scelta presuppone una valutazione politica che, prima o poi, le persone “contro le guerre”, “contro i monopoli”, “contro le disuguaglianze”, “contro l’inquinamento” ma non contro il presupposto ideologico che crea ad arte guerre, monopoli, crescenti disuguaglianze ed inquinamento – cioè il neoliberismo con tutto il suo apparato istituzionale – ci dovranno prima o poi consegnare.
Nella seconda parte di questo studio analizzeremo perché, nel degradato contesto attuale, ha senso non solo politico, ma anche economico, nazionalizzare ILVA.
Roberto Polidori
Nadia Garbellini*
[1] Colin Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza 2014, pag. 28
*Ricercatrice dell’Università di Bergamo, Dipartimento di Ingegneria gestionale, dell’informazione e della produzione