Loredana Lipperini è giornalista e scrittrice. Collabora da molti anni con le pagine culturali di “la Repubblica” e “Il Venerdì” ed è fra i conduttori di Fahrenheit su Radio Tre. Dal 2004 ha un blog, lipperatura.it tra i più seguiti in Italia.
Gestisci un blog che si occupa di libri e letteratura; conoscendo bene il momento critico che sta attraversando il settore culturale sul piano lavorativo, secondo te chi può permettersi di scrivere oggi libri? Per un precario, in termini di investimento economico, di tempo e di passione risulta sempre più difficile dedicarsi ad attività di questo genere. A questo proposito secondo te a cosa andremo in contro rispetto alla produzione culturale?
La domanda, in effetti, va ancora ampliata: chi può permettersi di leggere? E non solo perché, ultimi dati Nielsen alla mano, il 57% degli italiani non ha letto neanche un libro in dodici mesi, ma perché viviamo ormai da lustri in una cornice che impoverisce o addirittura schernisce la cultura e dunque la lettura. Se hai notato, la parola “intellettuale” è divenuta quasi insulto, o nel migliore dei casi sinonimo di immobilismo e di vecchiaia. Se hai notato, inoltre, da anni si scoraggiano i giovani dallo studio. Pensa ai titoli dei quotidiani che ripetono ossessivamente che la cultura è quasi un inciampo: «Meglio il lavoro oggi che la laurea domani», «La laurea? inutile per lavorare», «Troppa formazione può addirittura essere dannosa», «Rivalutare il lavoro manuale», «Se rinasco faccio l’artigiano», «saldatori ed elettricisti. Ecco i posti anticrisi». Pensa, infine, ai dati Ocse che ci dicono che in Italia gli “analfabeti funzionali” sono tantissimi, quasi 3 su 10, che è la percentuale più alta in Europa. Un analfabeta funzionale, per intenderci, è incapace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. Dunque, come ripete da anni, inascoltato, Tullio De Mauro, non riesce a comprendere gli articoli di un quotidiano, ma neanche i termini usati in un contratto o in una polizza o in una bolletta, non sa interpretare una statistica, non ha, in una parola, competenze che gli permettano di essere un cittadino informato. E neanche produttivo, ci rimprovera l’Unione Europea non da oggi. Allora, qualsiasi discorso sul futuro della produzione culturale non può prescindere da questo contesto, che ancora non è centrale nei progetti italiani. Anzi.
Vengo alla tua domanda. La situazione dell’industria editoriale è critica, e non solo perché è critico lo stato dell’economia e, come detto, della cultura: gli editori scontano non pochi errori commessi fin qui, inclusa una produzione altissima di novità e un inseguimento cieco del best seller, con sovraffollamento di titoli spesso di qualità deprecabile. E’ critica perché i lettori, inclusi quelli forti, sono diminuiti: spesso occupano il tempo libero in altro modo, o rileggono, o chiedono prestiti alle biblioteche. Se fino a qualche anno fa erano comunque pochissimi a vivere di scrittura (non dimentichiamolo, i casi di professionisti del libro, in Italia, si sono sempre contati sulle dita di due mani), ora rischiano di diventare una specie in estinzione.
Le grandi fabbriche molto spesso hanno prodotto molteplici narrazioni che provano a raccontare e testimoniare l’ampiezza del dramma che coinvolge i lavoratori e le popolazioni contigue alle grandi aree industriali. Quanto è importante per te il ruolo politico di queste narrazioni, e quanto stanno contribuendo alla costruzione di un immaginario potenzialmente di alternativa, di futuro in un contesto nel quale la sinistra politica fa fatica a fare i conti coi cambiamenti strutturali che hanno stravolto il mondo del lavoro?
Quel ruolo è indispensabile e, sia pure occultato nelle classifiche dei libri più venduti, è tutt’altro che diminuito. Penso a scrittori come Wu Ming, Antonio Moresco, Michela Murgia, Francesco Maino, Romolo Bugaro, Alberto Prunetti e tanti altri che in modo diverso hanno raccontato e raccontano (trasfigurandola o fotografandola) la realtà del lavoro o della sua assenza, o che ci mettono davanti, come Walter Siti in Exit strategy, al brusco risveglio dopo anni di ossessione desiderante. Io non credo affatto che il ruolo dello scrittore sia, giocoforza, quello di trasformarsi in ameno autopromotore, in quella triste figura vagheggiata dagli uffici marketing che invade i social con la copertina del suo libro, sempre sorridente e accomodante e popolare, mi raccomando. Credo che gli scrittori possano avere un’altra collocazione nel mondo. “Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi”. Lo scrisse un poeta, Franco Fortini, poco prima di morire. Era l’autunno del 1994, l’era del berlusconismo si era aperta da pochi mesi, e il letterato (“dunque, un niente”, scrisse nella sua ultima lettera Fortini) metteva in guardia la sinistra, ricordandole che le scelte di allora sarebbero state giudicate dalle generazioni successive. Quelle generazioni, oggi, vivono le conseguenze di scelte che non sono state fatte, su cui si è esitato e su cui si è scesi a compromessi. Ecco, il ruolo che fu di Fortini non si è affievolito. Anche se il letterato continua a essere considerato, nella percezione pubblica, “un niente”.
Sei candidata nel collegio del nord-ovest della lista Tsipras per le prossime elezioni europee. Quanto credi che questa tappa possa essere l’inizio di un processo costituente per ‘rifondare l’Europa’, che sappia incrociare realmente i bisogni e i desideri di chi sta subendo le conseguenza delle politiche di austerity? Qui a Taranto, ancora scossa dalle vicende giudiziarie degli ultimi due anni, aleggia una sfiducia complessiva e indistinta nei confronti della rappresentanza. Quali possono essere secondo te, i punti cardine di questo processo costitutivo, che possano guardare oltre le infinite divisioni a sinistra?
Parto dal manifesto di Ventotene, al punto in cui diceva: “ i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi”. Ecco, alla luce di quanto ti ho detto fin qui penso che questo sia il punto di partenza. L’Europa va rifondata con una politica che non equivalga a finanza. Quella sfiducia di cui parli dura da molto, dura da prima della discesa in campo di Berlusconi, che ancora occupa anacronisticamente i discorsi politici e giornalistici. Dura da quando, nel 1987, Margaret Thatcher pronunciò quella frase che divenne, nei fatti, il manifesto del liberismo: “Non esiste la società. Esistono solo gli individui e le famiglie” (nell’integrale, le sue affermazioni sono ancora più dure: “…la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a sé stesse. È nostro dovere badare prima a noi stessi e poi badare anche ai nostri vicini. Le persone pensano troppo ai diritti senza ricordarsi dei doveri, perché non esiste un diritto se prima qualcuno non ha rispettato un dovere”). Ed è quel che è accaduto: da più di trent’anni a questa parte, si è sgretolata l’idea di società, si è allontanata ogni concezione di ambito collettivo condiviso e civico, in cui ci si prende cura, insieme, non solo della cosa pubblica ma del futuro. La cosiddetta fine della politica, il disamore nei confronti della medesima, giù fino al populismo e all’uovo del serpente delle ultradestre che si schiude oggi in molti paesi europei, è tutta qui. Così come è per questo motivo che la scuola pubblica venga progressivamente smantellata: perché è qui che si costruisce la società, è qui che si prospetta il futuro. Io mi occupo, oltre che di libri, di femminismi. Ora, occuparsi di diritti delle donne significa occuparsi di diseguaglianze: che riguardano tutti, le donne e gli uomini. Le diseguaglianze sono l’altra diretta conseguenza della fine dell’idea di “comune” e dell’adozione sconsiderata dell’abbandono dell’idea di un’Europa “politica”, laddove “politica” significa occuparsi, appunto, di cosa pubblica e di futuro.
Taranto oggi è abbandonata ad una politica cialtrona, incapace di trovare una soluzione che sappia guardare al futuro, e che risponde alle emergenze a suon di decreti. Quali sensazioni ti attraversano e che idea ti sei fatta riguardo tutta questa vicenda?
Che abbiamo perso la capacità di progettare, e dunque di sperare. Leonardo Sciascia scriveva “Voglio quel che non c’è mai stato e che evidentemente non c’è; e che continuando si fa meta sempre più lontana”. Per quanto lontana sia, dobbiamo almeno immaginarla, quella meta. E’ l’unica possibilità per raggiungerla.