Una fabbrica nel cuore di una città. Fumi e sostanze cancerogene disperse nell’aria. Operai con i loro sindacati a difesa del lavoro, contro associazioni e comitati in difesa dell’ambiente. Inchieste e sequestri, dibattiti e polemiche infinite. Proteste, marce, contrapposizioni tra diritti e guerra tra poveri. No, non è Taranto!
A mille chilometri dalle nostre ciminiere, nel profondo nord- est, dal 1896 più o meno ininterrottamente sbuffa i suoi fumi la Ferriera di Trieste .
Nata più di un secolo fa a Servola, rione di Trieste di poco più di 12000 abitanti, la Ferriera è destinata alla produzione di ghisa e il suo ciclo produttivo è attualmente composto dalla cokeria, dall’impianto di agglomerazione, da due altiforni e dalla macchina a colare. Sorella maggiore, anagraficamente, dell’Ilva di Taranto, ma più piccola come estensione (560.000 mq) e numero di occupati (circa 490 i dipendenti diretti, a cui devono aggiungersi 300 dell’indotto e un centinaio di settori collegati, per un totale di 1000 dipendenti scarsi).
La Ferriera di Trieste viene costruita dalla Krainische Industrie Gesellschaft di Lubiana, ancor prima che Trieste diventasse definitivamente una città italiana. Passa indenne le due guerre, subisce vari passaggi di proprietà fino ai primi anni trenta, quando entra nella galassia della siderurgia pubblica, cambiando numerose denominazioni e assetti proprietari. Nel 1988 avviene la privatizzazione con la cessione al gruppo Pittini che, nonostante massicci investimenti – tra cui la costruzione di un acciaieria –, nel 1992 porterà la Ferrriera al primo commissariamento e al conseguente stop degli impianti ad eccezione della cokeria.
Nel novembre del ‘94, dopo due aste pubbliche andate deserte, si svolge un grandissima fiaccolata a sostegno dei lavoratori del siderurgico. Trieste viene attraversata da una catena umana che, partendo dalla fabbrica, arriva fino a Piazza dell’Unità. Alla testa del corteo l’allora sindaco Riccardo Illy e il vescovo Lorenzo Bellomi; al loro seguito, migliaia di persone che si stringono intorno alle loro maestranze a difesa del lavoro. L’orgoglio triestino avrà la meglio. Nel 1995 infatti – mentre l’Ilva di Taranto viene venduta alla famiglia Riva – la Ferriera viene acquistata dal gruppo Lucchini e i suoi impianti vengono gradualmente riavviati. Parte integrante dell’accordo è la costruzione di una centrale termoelettrica e l’acquisto dell’energia prodotta dai gas di risulta in regime di Cip 6 a tariffa agevolata.
Il rapporto tra la Ferriera e la città si incrina alla fine degli anni ‘90, con le prime inchieste della magistratura e del PM Federico Frezza, che porteranno ad arresti, rinvii a giudizio, e ad una serie di sequestri che però non fermeranno mai gli impianti. Nascono le prime associazioni e comitati per la chiusura della Ferriera e per la salvaguardia dell’ambiente e della salute: “No smog”, “Servola respira”, e soprattutto il “Circolo Miani”, nato nel 1981 come circolo culturale, per poi sposare i temi ambientali intorno agli anni 2000. Il suo leader e fondatore, Maurizio Fogar (che nel corso degli anni si renderà protagonista di alcune singolari proteste contro la ferriera: dallo sciopero della fame alla rinuncia di cure vitali per la sua sopravvivenza), si candida per tre volte alla guida della città con la lista “La tua Trieste” (nel (2001-2006-2011), senza mai superare l’1,5% e i 2000 voti.
Nel frattempo, nel 2002, viene chiusa l’acciaieria e, nel 2005, il 62% della Lucchini viene comprato dai russi di Severstal, che acquisiranno del tutto la società nel 2010, ma non certo per rilanciarla. Si susseguono marce, studi sulla qualità dell’ambiente e della salute, perizie e petizioni popolari.
Si prova a progettare un futuro senza Ferriera: nel 2003, l’allora Ministro dell’Ambiente, Altero Matteoli, l’azienda, la Regione e gli enti locali – solo i sindacati non firmano – siglano un “protocollo d’intesa” che prevede la dismissione e riconversione delle attività siderurgiche della Ferriera entro il 2009; ne seguirà un altro, nel 2012: entrambi non si concretizzeranno.
Intanto vengono commissionati dalla Regione Friuli Venezia Giulia studi sulla ricollocazione dei dipendenti. Tutti appaiono possibilisti, anche i settori storicamente più vicini al lavoro – sindacati compresi – non escludono la chiusura della fabbrica, a patto di una sicura ricollocazione di tutti i dipendenti; nessuna di queste strade si rivelerà percorribile.
Nel frattempo una nuova crisi è alle porte e dopo il disimpegno della Servestal , la fabbrica passa sotto il controllo delle banche: la Ferriera appare sempre più destinata alla chiusura, e i toni diventano sempre più accesi. Nel 2012 arriva un altro commissariamento. Non mancano forti momenti di tensione tra lavoratori e i più accesi sostenitori della chiusura. Ma quando tutto sta per finire nel peggiore dei modi, e in maniera incontrollata, bussa alla porta di Trieste il cavalier Giovanni Arvedi.
Accolto con entusiasmo dalle istituzioni, con freddezza e diffidenza dalle associazioni ambientaliste e con tiepido ottimismo da sindacati e lavoratori, l’imprenditore lombardo promette investimenti massicci: il rilancio industriale della Ferriera – con la costruzione del laminatoio a freddo –, interventi mirati sugli impianti più inquinanti – un impianto di aspirazione e abbattimento delle emissioni con l’insufflazione dei carboni attivi nei gas reflui della cokeria, studiato e progettato da Arvedi stesso –,nonché un aumento del occupazione. Ad oggi l’impegno di Arvedi è ancora tutto da verificare, i picchi di inquinamento sembrano non arrestarsi e il clima in città rimane teso – sia pure in misura minore rispetto al passato. I primi risultati sulle riduzioni delle emissioni – ai quali lo stesso Arvedi ha vincolato la sopravvivenza dell’area a caldo – sono attesi tra dicembre ed aprile. Il futuro della Ferriera rimane così ancora incerto e in divenire.
La Ferriera di Servola viene sempre più spesso definita l’Ilva del Nord-Est e infatti, al netto di alcune sostanziali differenze, addentrandoci nella sua storia – soprattutto recente – i punti di contatto con la questione tarantina sono tantissimi: stesse problematiche, medesimo il clima sociale, talvolta speculari anche gli slogan e il contenuto dei dibattiti – i “vengo a mangiare a casa tua” contro i “non ho mai visto nessuno morire di fame” –, simili le potenziali vie d’uscita e probabilmente anche gli stati d’animo di cittadini e lavoratori.
Eppure quella di Trieste è una storia di cui Taranto parla poco, e di cui poco si sa. Conoscere la Ferriera un po’ più da vicino ci permetterebbe di approfondire il dibattito e capire, per esempio, che se vogliamo “Taranto libera”, dovremmo per lo meno avere la consapevolezza che la nostra città non è l’unica “prigioniera”, e che il mondo non inizia e non finisce ai piedi delle colonne doriche. Soltanto dopo questa presa di coscienza possiamo metterci d’accordo su quale sia il carceriere dal quale vogliamo liberarci, e perché: è il lavoro? E’ l’inquinamento? O è la fabbrica stessa?
Come allo stesso modo va detto che, se Ilva “is a killer”, di sicuro non è l’unico sicario a piede libero la cui mano è armata da qualche mandante che probabilmente non abbiamo più la capacità e la voglia di individuare con chiarezza.
La storia della Ferriera di Servola ci dice soprattutto che Taranto, nel bene e nel male, non è sola; che altro non siamo che un ingranaggio del mondo, alle cui problematiche siamo inevitabilmente legati.
A Taranto, come a Trieste, le ciminiere continuano a sbuffare i loro fumi da quando sono nate, più o meno ininterrottamente; e c’è il sospetto che quei fumi, oltre ad entrarci nei polmoni, possono averci annebbiato la vista, rendendoci più opache le prospettive, le soluzioni ed il futuro.