«Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione»
(L. Longanesi)
Negli ultimi due anni (2015-2016), il mantra del “rilancio culturale” della città si può dire che abbia avuto la sua acme: da un lato, il passaggio del Museo Archeologico Nazionale a un regime di autonomia sotto una nuova direzione, ha acceso gli entusiasmi di chi era convinto che bastasse un cambiamento al vertice di un’istituzione per invertire la rotta di un’intera città; dall’altro, la perdita della sede della Soprintendenza Archeologia, confluita a seguito del DM 44 del 23 gennaio 2016 (Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), in un’unica Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio con sede in Lecce, ha dato vita a una battaglia che si parzialmente è affievolita – soprattutto nei ranghi che parevano i più infuocati – a seguito delle dichiarazioni del Ministro Franceschini che ha parlato di situazione di equilibrio, avendo avuto Taranto il Museo autonomo: tuttavia, una piccola rappresentanza di attivisti era meritoriamente presente a difendere la Soprintendenza il 7 maggio, in Piazza Barberini a Roma, in occasione della manifestazione “Emergenza cultura”.
Poi, l’apertura dell’ultimo piano del Museo – con tanto di inaugurazione alla quale hanno presenziato il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il Ministro peri beni, le attività culturali e il turismo, Dario Franceschini – ha causato più bufera che esaltazione: la mancata comunicazione dell’imminente apertura delle nuove sale porta Pietro Giovanni Guzzo, già Soprintendente a Napoli e Pompei, a rassegnare le proprie dimissioni dal Consiglio scientifico del Museo (la lettera è pubblicata assieme a un comunicato con cui l’Associazione Bianchi Bandinelli ha annunciato di voler aprire un confronto sul “caso Taranto”); il 29 luglio l’arrivo del Premier è salutato da una contestazione di cittadini che, radunatisi in Piazza Garibaldi, chiedono la cessazione delle passerelle politiche in nome di un reale interesse per le sorti della città; il giorno seguente, Tomaso Montanari rende note delle missive nelle quali l’attuale direzione del M.Ar.Ta. lamenta carenza di personale in diverse qualifiche, comprese le mansioni di custodia necessarie a tenere aperte le sale. La Direttrice ha recentemente dovuto ribadire, a seguito di alcune indiscrezioni l’avrebbero data per pronta a lasciare l’incarico per via della carenza di personale, la sua volontà di restare alla guida del Museo, invitando tutti ad avere fiducia.
Che l’intera macchina culturale cittadina non potesse gravare esclusivamente sulle spalle della nuova dirigente del Museo è cosa su cui avevamo messo in guardia in tempi non sospetti, quelli in cui è bastata la parola “cambiamento” per accendere gli entusiasmi della cittadinanza. Dirigere un Museo – peraltro tra i più grandi e ricchi d’Italia – è di per sé un compito impegnativo, specie quando si è privi della necessaria dotazione di personale; per cui appare chiaro come non si possa pretendere che il Museo vada a colmare lacune diventate voragini nel corso di anni di politiche culturali poco lungimiranti. Per questo ci si sarebbe attesi un altro atteggiamento dalla politica locale che, attorno alla cultura – e, in particolare, all’archeologia che pare essere la moda del momento – mantiene costantemente attivo un meccanismo di confusione nella percezione della questione tarentina.
È di qualche giorno fa, ad esempio, la proposta di una “Alta Scuola di Formazione in Beni Archeologici e Paesaggistici” da aprirsi a Taranto: il consigliere regionale Gianni Liviano si è confrontato con il Politecnico di Bari sulla fattibilità del progetto, captando sensazioni buone e individuando possibili sedi. L’idea sarebbe di partire con un master di I livello. Proposta singolare, dato che a Taranto ha chiuso il corso di laurea in Beni Culturali e che si è persa la Soprintendenza. Si tratta di questioni non da poco quando si decide di aprire un nuovo istituto formativo, peraltro con una specificità così netta. Non si può ridurre la fattibilità o meno di un progetto all’individuazione di questa o di quella sede: vanno pesate con criterio le ricadute sul territorio in termine di occupazione perché questa generazione in formazione continua – e le strutture formative in Puglia non mancano di certo, dai Corsi di Laurea di I e II livello alle Scuole di Dottorato e di Specializzazione (III livello), titoli questi ultimi necessari se si vuole partecipare ai concorsi per funzionario presso il MiBACT (si vedano gli ultimi bandi) – a qualche sbocco dovrà pur approdare. Altrimenti il rischio che si corre è quello di costruire l’ennesima cattedrale nel deserto.
Quanti degli archeologi che si sono formati a Taranto negli ultimi anni lavorano sulle testimonianze della città? Quanti di loro vengono invitati nelle occasioni in cui si parla pubblicamente di attività culturali? Chi si sceglie per rappresentare il settore nei dibattiti sul tema? Ci sono archeologi debitamente formati che danno quotidianamente il proprio contributo alla crescita della città sia dal punto di vista dell’educazione al patrimonio – parlo soprattutto di associazioni che operano a titolo volontario – che da quello della ricerca scientifica, sui cantieri a scavare o a sorvegliare, per ore e in qualunque condizione climatica. Un lavoro continuo e costante che, forse per questo, non trova il giusto risalto in mezzo a urlatori, scopritori d’oro e sensazionalisti di ogni sorta. Persone che, operando nel settore, dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di una classe politica seriamente preoccupata del futuro dei propri cittadini; coloro con cui confrontarsi sulla fattibilità delle proposte, per comprenderne possibilità e criticità, perché il peso di una formazione specialistica lo vivono sulla propria pelle ogni giorno nel momento in cui operano – quando possono farlo – o, più frequentemente, quando devono cercare un lavoro quanto più possibile coerente con i propri studi.
Allora non basta – e, addirittura, non sarebbe necessario – istituire nuove strutture: finché si continuerà a tirare fuori proposte che non consentano di immaginare un futuro che vada oltre la sola formazione, predisponendo soluzioni e condizioni per stabilizzare i giovani estremamente formati che languono – invecchiando – nella disoccupazione, Taranto continuerà a masticare un equivoco concetto di “rilancio culturale” mostrando, oltretutto, di digerirlo davvero male.
StecaS