L’Oscar come “miglior film straniero” con cui è stato premiato La Grande Bellezza è tanto meritato quanto “telefonato”.
Meritato, perché è il risultato di un’ampia rivisitazione dei contenuti e delle tecniche che il cinema italiano ha covato dall’inizio degli anni 2000, ed è il giusto riconoscimento all’importante percorso artistico di Paolo Sorrentino. È dal suo esordio con L’Uomo In Più, colpevolmente sottovalutato dalla critica, che Sorrentino fa parlare di sé: sa come raccontare storie belle, profonde e atipiche e sa usare la macchina da presa come pochi al mondo. Uno dei motivi di questo successo va ricercato anche nel fortunato e riuscitissimo connubio con un attore che ormai è divenuto un mostro sacro come Tony Servillo, comunque poco considerato alle nostre latitudini dove cine-panettoni e cine-boiate hanno sempre molto più clamore a dispetto delle poche pellicole dalla qualità assoluta (di Servillo consiglio in particolare Il Gioiellino, pellicola pressoché sconosciuto ma che può far tranquillamente invidia a tanti film hollywoodiani che trattano il tema delle bolle finanziarie, in questo caso prendendo spunto dal caso-Parmalat).
Che il cinema italiano, nonostante la scelleratezza con cui vengono indirizzati i pochissimi fondi ministeriali dedicati alla settima arte, sia in buona ascesa non lo scopriamo certo oggi; con la consapevolezza che il periodo florido degli anni ’50 e ’60 è praticamente irraggiungibile – il genio era diffuso tra tanti sceneggiatori, attori e registi – possiamo comunque contare su una batteria di registi che oltre Sorrentino annovera Virzì, Tornatore, Bertolucci, Garrone, Tullio Giordana, Bellocchio (bella squadra, eh?) e su una batteria di attori di ottima qualità dove Tony Servillo spadroneggia incontrastato, andando a lambire il ricordo di mostri sacri come Marcello Mastroianni, che ricorda in alcuni aspetti istrionici.
La Grande Bellezza è un film di fattura rara: un affresco atroce della classe dirigente italiana, mostrata in nostalgica decadenza, di cui ne critica costumi, abitudini e soprattutto la morale. Il motivo per cui la fotografia – dalla memorabile cura – abbia un aspetto preponderante non deve sorprendere: più che narrare qualcosa, Sorrentino ha voluto mostrare e scavare negli anfratti di quella che è considerata la crème della crème della società italiana, invidiata da buona parte della cosiddetta società civile, operando quindi una continua operazione d’immagini e istanti, quasi come un pittore o, per l’appunto, un fotografo. L’interpretazione di Tony Servillo, e anche del resto del cast, è magistrale e la critica che ne emerge impietosa; ma chi ha potuto ammirare le opere di Fellini e Pasolini, in questa pellicola non ci trova niente di nuovo o particolarmente innovativo dal punto di vista dei contenuti e dal metodo narrativo.
Quando vidi questo film pensai subito che avrebbe potuto tranquillamente concorrere all’oscar (stessa cosa che avevo previsto per Gravity): troppo facile solleticare gli standardizzati gusti estetici statunitensi con quella che è praticamente una rivisitazione in chiave contemporanea de La Dolce Vita di Fellini, che negli States fu quasi innalzato ad emblema della settima arte. Sorrentino non ha nascosto di essersi ispirato a lui anche ieri durante il discorso di premiazione, il ché gli fa onore (e per questo è ancora il mio regista contemporaneo preferito), ma ad un occhio attento non può passare inosservata come tutta la struttura della pellicola sia ripresa da Fellini e Pasolini in maniera quasi spudorata, snaturando un po’ quelle che sono le peculiarità dello stesso Sorrentino nel narrare con la macchina da presa. Ma la giuria dell’oscar, era scontato, si è fatta avvolgere (o forse era già avvolta) dalla nostalgia di tempi andati, di quando Fellini e il suo cinema impietoso si affermavano nel mondo come esempi massimi di cinematografia della storia, coccolati dagli americani che ne rimasero affascinati e perdutamente innamorati, proprio come Mastroianni seduce Anita Ekberg ne La Dolce Vita. E Sorrentino, che fesso non è, questo lo sapeva benissimo e credo abbia impacchettato (alla grande, bisogna dirlo) un film in tale prospettiva. Ora, tra la feroce critica degli esperti italiani del settore e la vittoriadell’oscar c’è di mezzo un oceano, ma credo che – come quasi mai accade – la verità questa volta sia nel mezzo: La Grande Bellezza è un film di altissima qualità, difficile da capire, complicato da seguire, “non adatto agli amanti dei cinepanettoni” (citazione su un blog di streaming, dove potete trovare La Grande Bellezza in uno streaming guadabile; e dovreste dedicare un paio d’ore della vostra vita alla visione di questa opera). Ma è anche vero che da Sorrentino mi sarei aspettato qualcosa di più personale. Questo film è quello che probabilmente meno gli appartiene. Insomma, se c’era un modo abbastanza sicuro per vincere un Oscar, La Grande Bellezza è una ricetta potenzialmente perfetta.