Un saggio storico sull’eccidio delle fonderie di Modena. Su un episodio del dopoguerra sconosciuto ai più. Eppure di cruciale importanza nella storia sindacale italiana, accaduto in un periodo in cui la democrazia, carica di contraddizioni e tensioni, cercava di affermarsi dopo i decenni bui del fascismo e della guerra.
Era il vento non era la folla (Bébert Edizioni) è il titolo dell’opera prima di Francesco Tinelli, giovane studioso tarantino, storico della contemporaneità, da anni trapiantato a Modena. Un libro che nasce dalla revisione di una tesi di laurea che aveva l’obiettivo di far luce, a sessant’anni di distanza da quella giornata drammatica, sul contesto delle responsabilità politiche che provocarono la morte di sei operai delle Fonderie Riunite di Modena, il 9 giugno del 1950. Vittime che sono compresi tra quei 75 lavoratori che furono uccisi in tutta Italia tra il gennaio del 1948 e il settembre 1954, all’apice di una violenta repressione di cui fu vittima il movimento operaio e parte del mondo politico sindacale che usciva dalla Resistenza, in generale. In quel lasso di tempo si conteranno anche 5.104 feriti, 148.269 arrestati e 61.243 condanne in relazione a manifestazioni sindacali e di piazza[1].
È all’interno di questa cornice temporale, dentro la lunga transizione dalla dittatura alla repubblica, che l’autore, prendendo spunto dall’eccidio di Modena, prova ad interrogarsi su come funzionasse la nascente democrazia e come fosse gestita ed organizzata la forza pubblica negli anni ’50. Una fase di “democrazia protetta” che, come ha scritto Donatella Della Porta[2]: “ in realtà era una democrazia limitata, nella quale la polizia aveva il compito, più che di proteggere l’esercizio democratico di tutti, di limitare l’esercizio dei diritti democratici di alcuni”.
Storia di un eccidio. Quella dell’eccidio delle fonderie di Modena è una storia che si colloca in quelle limitazioni della vita pubblica – misure giustificate dal governo con un presunto attentato alla democrazia – di cui furono vittime gli uomini e le donne del movimento operaio, delle organizzazioni sindacali cui appartenevano, dei partiti politici che li rappresentavano; talvolta, come in questo e in altre decine di casi, a danno della loro stessa vita.
Si legge in un rapporto della questura di Modena, datato 11 Marzo 1950 e pubblicato integralmente nel saggio: “sin dal 7 corrente in conseguenza della vertenza che si trascinava da circa un mese tra l’industriale Orsi e la Fiom, si era determinata in Modena una grave situazione che minacciava di ripercuotersi sull’ordine pubblico”. In pratica, la dirigenza della fabbrica voleva licenziare 120 operai per diminuire i costi di produzione e cancellare alcune conquiste operaie come il cottimo collettivo. Si era di fronte, così, a un problema che riguardava tutta la città, non solo gli operai. Ma, come il saggio racconta riportando la testimonianza diretta di un delegato sindacale:
subito dopo capodanno, nella sede modenese della Confindustria, alcuni imprenditori, tra i quali il costruttore Enzo Ferrari e il direttore delle Fonderie Corni, dott. Guerini, avvertirono rispettivamente il segretario provinciale della Fiom Mario Barozzi e il capo della propria commissione interna, Arturo Casari, che era preferibile evitare di recarsi davanti alle Fonderie, dato che era già stato deciso l’uso della forza e delle armi da fuoco.
Insomma, la storia di una pagina buia di repressione italiana era stata già confezionata e il risentimento della comunità modenese di fronte ai licenziamenti poté poco. Dunque l’eccidio non fu un caso: una settimana prima si sapeva già quello che sarebbe successo a breve. Come riporta il già citato mattinale della Questura di Modena: “nel corso del conflitto rimanevano mortalmente feriti sei dimostranti, di cui cinque decedevano all’ospedale, poco dopo il ricovero, mentre il sesto la sera dello stesso giorno.”
Secondo la versione delle forze dell’ordine, l’iniziativa dei lavoratori era stata violenta: essi erano stati abilmente sobillati dai dirigenti sindacali, che avevano organizzato i disordini nei minimi dettagli. Delle indagini sugli avvenimenti del 9 gennaio se ne occuparono gli stessi dirigenti della Questura coinvolti nei fatti. Il processo si aprì due mesi dopo, il 20 marzo 1950. Imputati erano il capo della commissione interna delle Fonderie Riunite, più altri 33 tra uomini e donne che dovevano rispondere di diversi reati. Si procedeva contro ignoti per le accuse di omicidio e di tentato omicidio.
Il processo andò avanti per sei anni: si concluse con la piena assoluzione dei manifestanti e si appurò che a sparare, uccidendo, furono elementi delle forze dell’ordine che, come emerso dalle indagini, era impossibile identificare. La difesa, composta da 24 avvocati del Comitato di Solidarietà Democratica, tra cui il senatore Umberto Terracini (già presidente dell’Assemblea Costituente), decise di intentare un’azione legale nei confronti dello Stato; e questo, quindici anni dopo, riconobbe un risarcimento di un milione di lire alle vittime. Chiudendo definitivamente uno degli episodi più tragici della storia politica italiana dal dopoguerra ad oggi.
Grazie ad una dettagliata ricerca negli archivi della Prefettura, della Questura, del Tribunale e dell’archivio del Comitato di Solidarietà Democratica di Modena, Francesco Tinelli riapre le ferite legate a quei fatti, interrogando la storiografia, mettendo in luce tutti i dettagli che portarono ad un processo farsa basato su una ricostruzione parziale degli eventi. Vagliando per la prima volta in assoluto fonti inedite – tra di esse, due documenti unici ed importanti, pubblicati integralmente: la testimonianza del prefetto Giovanni Battista Laura e l’arringa processuale dell’avvocato Lelio Basso – l’autore racconta in una cornice originale una pagina nera della neonata democrazia italiana.
[1] G. De Luna, Partiti e società negli anni della ricostruzione, in Storia dell’Italia Repubblicana, Vol. I, La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino 1994 p. 768.
[2] D. Della Porta, H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla liberazione ai No global, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 25.s