Il 3 dicembre scorso il Senato ha dato il via libera definitivo al Jobs Act con 166 si, 112 no e un astenuto. Il combinato disposto tra la Legge di Stabilità e il Jobs Act è un pacco contro lavoro e diritti. Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, può finalmente portare a Bruxelles lo scalpo dell’art. 18; anzi, di tutto l’impianto dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori perché, senza tutela reale, ogni altro diritto è di per se indebolito – se non annullato. Non si capisce come licenziamenti più facili, demansionamento e telecamere in reparto possano creare un solo posto di lavoro in più in Italia. Neppure è chiaro come il TFR in busta paga con una trattenuta più alta e il raddoppio della tassazione sui fondi pensione, possano far ripartire i consumi in questo Paese. I provvedimenti presi dal governo non sembrano in grado di affrontare la reale complessità della situazione economica. Anzi, affrontare una crisi di sovra produzione, come di fatto è l’attuale crisi, comprimendo i salari dei lavoratori, tassando i cittadini e togliendo diritti è più che inutile, è addirittura criminale.
Il tasso di occupazione sulla popolazione in età di lavoro è tra i più bassi in Europa (nel 2013 si è attestato al 55%, oltre 10 punti in meno rispetto alla media europea). La disoccupazione ufficiale ed ufficiosa è altissima, sopra i 6,5 milioni di persone, con differenze territoriali e per età elevatissime. Ma il mercato del lavoro non funziona perché è la nostra economia che non funziona. Con la crisi degli ultimi sette anni il nostro reddito nazionale è tornato al livello del 2000, la sua crescita è nulla da 15 anni, la produttività e le retribuzioni sono ferme alla metà degli anni ’90. La legge di stabilità del 2015 ed il Jobs Act scommettono che il mercato del lavoro si riattivi con una iniezione di fiducia collettiva, liberato dalla rigidità (tutele e protezioni) ed alleggerito da minori tasse sulle imprese più che sulle famiglie, coperte in gran parte da tagli a quella spesa pubblica che crea domanda effettiva. Sappiamo invece che occorrerebbe concentrare gli sfori sul vuoto di domanda, elaborando politiche pubbliche in grado di farla ripartire. Nella depressione non è cambiando le regole del lavoro che si attiva nuova occupazione; semmai si sostituisce lavoro, magari più stabile e più retribuito, con altro lavoro, meno stabile e meno retribuito. La retorica del discorso politico riesce a vendere questa politica di destra come fosse una politica di sinistra, facendo intendere che si offrono nuove tutele a coloro che non le hanno e che le vecchie debbano essere “rottamate”.
Con il Jobs Act l’azienda potrà provvedere al demansionamento del dipendente “in caso di crisi aziendali”. Questo provvedimento comporterà l’utilizzo del dipendente per mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto e la conseguente diminuzione della retribuzione. In questo periodo di crisi mondiale le crisi aziendali, vere o millantate che siano, sono all’ordine del giorno; di conseguenza il demansionamento diventa una regola e non l’eccezione. Viene introdotto il “contratto a tutele crescenti” per i neo assunti. In questo modo i neo assunti non avranno gli stessi diritti dei lavoratori con anzianità di servizio ma acquisiranno i diritti man mano che aumenterà l’anzianità di servizio. Di fatto si punta a cancellare l’articolo 18 per i neo assunti: non solo per i giovani, ma anche per i passaggi da un’azienda all’altra. Fatto sta che questo aumento progressivo non è attualmente quantificabile e si allunga vertiginosamente, considerato che i contratti a tempo indeterminato saranno preceduti dai contratti di apprendistato che dilateranno ancora di più il periodo di lavoro senza alcuna tipo di tutela. Per i licenziamenti per motivi economici poi non c’è alcun reintegro, solo l’indennizzo rapportato alla anzianità di servizio. Il reintegro compare solo per i licenziamenti chiaramente discriminatori e per quelli disciplinari risultati privi di fondamento alcuno, secondo tipicizzazioni ulteriori rimandate ai decreti attuativi. Chi mai, volendo licenziare, potrebbe impelagarsi in queste tipologie potendo giustificarsi con l’andamento economico dell’impresa?
Questo significa che, con gli attuali enormi livelli di disoccupazione e con l’estrema precarizzazione del mercato del lavoro, i padroni utilizzeranno l’ampia disponibilità di lavoratori disoccupati per tenere i neo assunti sotto ricatto perenne. Un lavoratore neo assunto non si permetterà mai di avviare una vertenza per reclamare un salario migliore o delle condizioni di lavoro migliore. In più questo provvedimento mira a dividere i lavoratori tra quelli che hanno diritti e quelli che non li hanno.
La riforma permette l’utilizzo del “contratto di solidarietà” sia nella forma “difensiva”, quella più comunemente utilizzata, sia in quella “espansiva”, che comporta una riduzione stabile dell’orario e della retribuzione, ma anche il contestuale aumento di organico. Il contratto di solidarietà in realtà nasceva per evitare o limitare i licenziamenti nei casi di crisi aziendale, e comportava una diminuzione dell’orario di lavoro e conseguentemente della retribuzione dei lavoratori. Inoltre, l’azienda che poneva in essere contratti di solidarietà, dopo un’ampia trattativa con i sindacati, non poteva in nessun caso assumere nuovo personale. Con il Jobs Act, invece, il contratto di solidarietà non viene più utilizzato per evitare licenziamenti, ma diventa uno strumento per aumentare l’organico riducendo orario di lavoro e retribuzione.
Viene introdotto l’istituto delle “ferie solidali”. Questo provvedimento e’ il grimaldello attraverso il quale può saltare un principio fondamentale del diritto del lavoro italiano: quello secondo il quale il lavoratore non può in nessun caso rinunciare ai suoi diritti. La legge invece permette ad un lavoratore di rinunciare alle ferie, permessi o malattia; in questo modo i datori di lavoro possono tranquillamente ricattare i lavoratori chiedendo loro di scegliere tra il lavoro e i diritti. La riforma del governo Renzi cancella inoltre l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, quello che vieta il controllo a distanza dei dipendenti con impianti audiovisivi o altre apparecchiature. L’art. 4 della L. 300/70, pur riconoscendo il diritto del datore di lavoro ad esercitare il suo potere di controllo, limitava fortemente l’utilizzo di impianti audiovisivi e altre apparecchiature nel rispetto di due diritti fondamentali dei lavoratori: il diritto alla riservatezza e quello alla dignità
Di fronte a questi caratteri di vera e propria “soluzione finale” nell’attacco del governo Renzi (e delle classi proprietarie) ai diritti e alle condizioni di esistenza della classe lavoratrice, l’unica risposta possibile e adeguata è quella della più estesa e forte mobilitazione non solo per difendere, ma anche per rivendicare l’estensione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori a tutti i contratti di lavoro. Per rivendicare, a partire da questa fondamentale trincea, una diversa idea di società in cui l’impresa economica non è un valore assoluto, ma una funzione subordinata ai diritti inalienabili del lavoro e della persona umana. Infine, allargando lo sguardo, il fondo Monetario internazionale plaude alla controriforma italiana, chiedendo al governo di chiudere subito il cerchio mettendo mano alla riforma delle pensioni. Distruzione dei diritti dei lavoratori, contrazione dei salari, distruzione delle tutele previdenziali: che altro serve per farci capire che è arrivato il momento di svegliarci dal torpore di questi ultimi 30 anni della storia del nostro paese e di tornare alla lotta partendo dal nodo centrale, la contraddizione capitale-lavoro?