La “questione meridionale” è tornata prepotentemente d’attualità negli ultimi mesi. La pubblicazione, nel giugno scorso, del Rapporto Svimez 2015 ha ravvivato un dibattito che sembrava ormai sopito – o relegato alle spoglie aule dei convegni fra specialisti. La discussione tuttavia, almeno ai massimi vertici politici, si è ridotta a un reciproco rimpallo di accuse fra istituzioni periferiche e governo centrale.
A ben vedere, si tratta di una dialettica tutt’altro che nuova. Come piuttosto trite sono le strategie retoriche adottate dai due campi. A illuminare le radici storiche di questa vexata quaestio interviene, con straordinario tempismo editoriale, “La questione” (Donzelli 2015), ultima fatica dello storico siciliano Salvatore Lupo.
Dal punto di vista storiografico, “La questione” è un libro importante. Lupo programmaticamente riprende,riorganizza ed esplicita le linee di ricerca che hanno ispirato la cosiddetta “storiografia di Meridiana” (la rivista di cui è stato co-fondatore nel 1987). Sinteticamente, si tratta di un modo di guardare alla storia del Mezzogiorno mettendo da parte l’idea di “eccezionalità” di questa area geografica, e analizzando senza pregiudizi il modo in cui le diverse provincie meridionali hanno cercato di integrarsi nel processo di trasformazione che il mondo ha conosciuto in particolare negli ultimi due secoli – la cosiddetta “modernità“.
Ne “La questione”, Lupo rilancia questa sfida attraverso due operazioni complementari. In primo luogo, distingue la storia contemporanea del Mezzogiorno dalle interpretazioni fornite da alcuni fra i più influenti teorici della “questione meridionale”; quindi analizza queste ultime alla luce dei loro presupposti politico-ideologici. Viene così estratto un nucleo di pensiero che ancora continua ad influenzare l’approccio ai problemi delle regioni meridionali. Due sono gli assunti che lo caratterizzano: la totale alterità del Mezzogiorno rispetto al resto del paese; la necessità di un intervento specifico (esogeno o endogeno) per il suo riscatto.
Lupo indaga la formazione di questa visione, e le sue diverse articolazioni, in rapporto ad alcuni temi cardine del dibattito pubblico dell’Italia liberale: il latifondo, le politiche economiche, le classi dirigenti.
Lo sviluppo post-unitario
Facendo riferimento alle più recenti acquisizioni della storiografia economica sul tema, Lupo segnala che i decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia furono tutt’altro che una catastrofe per le province meridionali. La ricchezza complessiva anzi aumentò, per via di un crescente ancoraggio delle produzioni locali ai mercati internazionali. Le politiche liberoscambiste dei governi della Destra agevolarono questa integrazione. La domanda estera stimolò trasformazioni strutturali, in particolare nel settore primario: molti terreni adibiti a pascolo furono rapidamente convertiti in produzioni cerealicole, prima, e arboricole, poi. In particolare, vite e olivo invasero le campagne di diverse aree del Mezzogiorno, inerpicandosi anche nelle contrade più impervie. In realtà, segnala Lupo, il rapido sviluppo dell’agricoltura meridionale avvenne nel quadro di una persistente collocazione dell’Italia nei segmenti più bassi della divisione internazionale del lavoro: vini e oli esportati dal Mezzogiorno erano utilizzati dall’industria alimentare di paesi terzi – soprattutto francese – prevalentemente come prodotti “da taglio”.
Le trasformazioni agronomiche si accompagnarono a modificazioni apparentemente contraddittorie del quadro sociale. Il fiorire dei mercati determinò un’accresciuta richiesta di terra, da cui risultò un aumento della rendita. I proprietari, da parte loro, investirono i profitti crescenti nell’espansione e nel miglioramento dei fondi. Rafforzamento del latifondo e trasformazione fondiaria avvennero dunque in concomitanza, come conseguenze della strategia di sviluppo attuata spontaneamente da produttori e proprietari.
Andarono però consolidandosi le diseguaglianze preesistenti. A farne le spese furono soprattutto le figure contadine legate alle grandi proprietà con varie modalità di conduzione dei fondi. Tale tendenza fu in parte compensata dalla redistribuzione degli usi civici e delle terre confiscate al clero. Lupo segnala che questa operazione, se da una parte contribuì all’ulteriore espansione dei latifondi, dall’altra offrì opportunità di crescita anche ai piccoli e medi proprietari. E’ altresì vero che la redistribuzione delle terre provocò in alcune aree anche un effetto indesiderato: l’immobilizzazione di una parte significativa del capitale circolante. Tale circostanza impose un freno al processo di trasformazione in atto, distraendo risorse dall’ammodernamento dei fondi e delle strutture produttive.
L’immagine che Lupo offre del Mezzogiorno post-unitario è dunque caratterizzata da un processo di sviluppo spontaneo e per certi versi caotico. Non mancarono i fenomeni degenerativi. Si pensi alla diffusione della vigna, che assunse caratteri parossistici nel corso degli anni ’80, quando le produzioni italiane si riversarono sul mercato francese a sostituire l’offerta locale intanto decimata dalla fillossera. Stesso destino sarebbe toccato alle viti italiane qualche anno più tardi: lo stesso impianto disordinato dei filari negli anni precedenti favorì la diffusione a macchia d’olio della malattia, con esiti catastrofici. Sui flussi di merci diretti all’estero si innestarono inoltre operazioni speculative di diverso tipo; e, in generale, essi favorirono l’emergere di operatori specializzati nell’intermediazione commerciale e finanziaria.
In sostanza, la società meridionale post-unitaria si mostrava tutt’altro che statica. Gli stessi elementi di continuità col passato (es. il latifondo) andavano modellandosi in funzione di nuove sollecitazioni (su tutte, la domanda estera), generando di conseguenza tensioni nel quadro sociale preesistente.
I contemporanei che per primi focalizzarono l’attenzione sulla situazione socio-economica del Mezzogiorno riconobbero solo in parte questa dinamica. Lupo individua tre figure eminenti: Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti e Antonio Salandra. I tre, pur muovendo da posizioni conservatrici, si mostrarono quanto mai sensibili alle condizioni sociali delle masse meridionali. Analizzando la situazione del Mezzogiorno, essi giunsero a formulare una “questione sociale” che nelle provincie meridionali presentava connotati particolarmente preoccupanti, data la disuguaglianza crescente. Per farvi fronte sarebbe stato necessario una drastica redistribuzione della proprietà fondiaria e un intervento diretto dello Stato nella definizione di patti agrari maggiormente favorevoli ai contadini. Gli auspici dei “meridionalisti” ante litteram furono tuttavia disattesi dai governi dell’epoca. Prevalse la linea del lassez faire, che lasciò dispiegarsi le contraddizioni che il processo di sviluppo in atto stava producendo.
Protezionismo e meridionalismo
Tale dinamica subì una brusca interruzione con la svolta protezionista di fine anni ’80. Il Mezzogiorno perse quasi del tutto lo sbocco sul mercato francese, fino ad allora meta privilegiata delle produzioni viti-vinicole e olearie. Negli anni successivi il governo provò a sostituire quella destinazione con i territori dell’Impero Austro-Ungarico, a loro volta falcidiati dalla fillossera. Si trattò tuttavia di una soluzione provvisoria, dal momento che nel corso degli anni ’90 il morbo si diffuse anche nelle provincie meridionali. Ne derivarono conseguenze di ampia portata: il superamento della crisi fu reso possibile dall’impianto di un nuovo tipo di vite (detta “americana”), che sostituì del tutto quella preesistente (“latina”). La vite “americana”, innestata con ceppi autoctoni, mostrò tuttavia minore adattabilità ai terreni marginali: ciò produsse la concentrazione dei filari presso le sole aree più fertili. I campi dell’interno furono così in buona parte riconvertiti alla cerealicoltura: in questo modo la divaricazione fra le aree più produttive e quelle più aspre (la “polpa” e l'”osso”, per dirla con Manlio Rossi Doria) andò dilatandosi.
Ne conseguì un rafforzamento ulteriore del latifondo nelle aree interne. Lupo mostra come diversi osservatori contemporanei (su tutti, Giustino Fortunato) fossero ben consapevoli del fatto che, dati i bassi rendimenti unitari dei terreni marginali, solo unità produttive di grandi dimensioni sarebbero potute risultare redditizie. Alla luce di ciò, la tariffa sui cereali introdotta nel 1887 appare come un argine al processo di concentrazione della proprietà fondiaria, dal momento che consentì anche alle aziende agricole minori di sopravvivere al drammatico crollo dei prezzi dei cereali.
Cionondimeno, la crisi degli anni ’90 ebbe conseguenze sociali profonde. Il peggioramento delle condizioni materiali nelle campagne alimentò la conflittualità contadina e, in misura crescente, l’emigrazione transoceanica. Il massiccio esodo attenuò la pressione demografica sulle risorse, riequilibrando a vantaggio dei gruppi subalterni i rapporti di forza fra proprietari e agricoltori. Sullo scorcio del secolo, complice la ripresa economica, tale circostanza consentì il miglioramento dei patti agrari e, in Sicilia, persino lo sviluppo di un movimento cooperativo in grado di valorizzare ampie porzioni di territorio. Altrove, dove la crisi aveva accentuato la precarizzazione del bracciantato – come in Puglia -, il conflitto sociale conobbe invece una escalation.
Sono questi gli anni in cui la “questione meridionale” si impone nel dibattito pubblico italiano. Lupo individua almeno due tendenze interne: una radical-liberista, incarnata da Gaetano Salvemini e Antonio De Viti De Marco; l’altra interventista, rappresentata in primo luogo da Francesco Saverio Nitti. A dividerle era il giudizio sulle politiche governative e sulle trasformazioni in atto nella società meridionale.
Salvemini e De Viti De Marco si scagliarono contro il protezionismo, ritenendolo un vulnus per gli interessi degli esportatori meridionali, e un favore ai latifondisti; soprattutto Salvemini individuava in esso il fattore che nel Mezzogiorno aveva determinato il consolidamento del blocco agrario, ostruendo la nascita di una borghesia moderna. In realtà, come si è visto, nella fase precedente le politiche liberoscambiste non erosero affatto il latifondo, che seppe anzi adattarsi al mutare delle condizioni, preservando così il potere dei grandi proprietari.
Dall’altra parte, Nitti considerava prioritario un intervento esterno – direttamente da parte dello Stato o attraverso una combinazione di pubblico e privato – per migliorare le condizioni delle campagne meridionali, sviluppare alcune infrastrutture di base, promuovere l’industrializzazione. Queste operazioni avrebbero consentito un innalzamento complessivo della produttività del sistema economico meridionale, stimolando al contempo l’emersione di una nuova classe dirigente, legata strettamente all’industria moderna.
Nella nuova congiuntura economica e politica di inizio secolo, le idee di Nitti ispirarono alcune importanti decisioni dei governi retti da Giovanni Giolitti: dalla legge straordinaria per Napoli (che consentì, fra le altre cose, la realizzazione del siderurgico di Bagnoli) alla costituzione del primo “ente autonomo” italiano, l’INA (Istituto Nazionale per le Assicurazioni).
In quello stesso frangente Salvemini rimase invece ostinatamente all’opposizione, continuando a ritenere Giolitti – da lui definito “ministro della malavita” – il responsabile principale dell’arretratezza delle provincie meridionali. In realtà, rileva Lupo, in quella stessa fase il Mezzogiorno conobbe una nuova fase di crescita, favorita dagli interventi di ispirazione “nittiana”, ma soprattutto trainata dalla domanda interna generata dallo sviluppo industriale del Nord.
Salvemini tuttavia alludeva anche all’arretratezza del sistema politico, caratterizzato dalla supremazia dei grandi proprietari, in grado di controllare i gruppi della piccola borghesia in lotta per il potere municipale. Fra latifondisti e piccolo borghesi vigeva uno scambio politico: ai primi i seggi della Camera, ai secondi quelli del consiglio comunale. In questa dinamica le organizzazioni contadine rimanevano emarginate e subalterne. Il solo modo di far saltare il blocco agrario – e con esso l’intera struttura di consenso su cui si fondava il giolittismo – era concedere il suffragio universale (quello maschile fu riconosciuto nel 1912).
L’analisi salveminiana tuttavia trascurava alcuni casi significativi di commistione fra istanze contadine e gruppi piccolo-borghesi. Lupo fa riferimento soprattutto alla vicenda siciliana, dove il movimento cooperativo – per rappresentatività secondo solo a quello emiliano – riuscì ad incidere sulle dinamiche politiche locali in maniera rilevante. D’altra parte, segnala l’autore, la stessa istituzione del suffragio universale non scalfì l’egemonia dei grandi agrari nelle aree in cui questa era più radicata, come in Puglia – e lo stesso Salvemini dovette farne le spese personalmente nelle elezioni politiche del 1913, alle quali partecipò risultandone sconfitto. Infine, la sua ostilità nei confronti delle “aristocrazie operaie” del Nord, complici a suo dire del sistema di potere dominato dalla borghesia industriale, gli impedì di contrapporre al blocco egemone un’alleanza sociale alternativa – come vedremo, questa fu la principale critica mossagli da Gramsci.
Grande guerra e combattentismo
La convinzione della necessità di una mobilitazione delle masse meridionali si rafforzò in Salvemini a seguito della Grande Guerra. Ai suoi occhi quell’esperienza sembrò aver finalmente fornito ai contadini del Sud consapevolezza delle proprie istanze e quadri in grado di organizzarle: gli stessi che avevano guidato le masse in trincea. Queste idee ispirarono la costituzione dell’Associazione Nazionale Combattenti (Anc), con la quale lo stesso Salvemini fu eletto alla Camera nel 1919.
L’Anc tuttavia si rivelò incapace di interpretare le attese più profonde dei contadini-soldati, rileva Lupo. Se questi infatti chiedevano l’immediata redistribuzione del latifondo, il gruppo dirigente combattentista non era affatto concorde nel perseguire tale rivendicazione – preferendole piuttosto la tradizionale battaglia liberoscambista. Tanto meno convinta di ciò era l’Opera Nazionale Combattenti (Onc), l’istituto fondato da Nitti sul finire della guerra come struttura di assistenza ai reduci, diventato poi un vero e proprio ente autonomo per la sistemazione dei territori meridionali. L’Onc infatti stava perseguendo un’opera di trasformazione fondiaria per accrescere la produttività dell’agricoltura meridionale: la frammentazione della proprietà avrebbe messo a rischio il perseguimento di tale obbiettivo.
La mancanza di una prospettiva chiara e gli inevitabili dissidi interni portarono all’esaurimento del movimento combattentista – e alle dimissioni dello stesso Salvemini dalla Camera. A trarre le conclusioni di questa esperienza furono alcuni fra i più brillanti discepoli dello storico molfettese, in particolare Tommaso Fiore e Guido Dorso. All’indomani del fallimento del progetto combattentistico il primo si convinse che non si poteva più tardare la nascita di un “partito del Sud“, che facesse proprie le rivendicazioni delle masse contadine meridionali. Il secondo, d’altra parte, interpretò l’emergere del fascismo come un momento dell’incipiente “rivoluzione meridionale“, che avrebbe spazzato via il vecchio notabilato giolittiano.
L’inadeguatezza di queste prospettive venne evidenziata da Antonio Gramsci nel suo celeberrimo scritto (incompiuto) sulla “quistione meridionale“. Qui, poco prima di essere arrestato, il comunista sardo riprendeva le formulazioni salveminiane sui blocchi sociali, le integrava con la politica di alleanza operai-contadini di ispirazione leniniana, e le estendeva con le prime elaborazioni della sua riflessione sull’egemonia. Ne risultava una proposta articolata: un blocco sociale alternativo a quello dominante, composto dalle masse contadine, dagli operai e dalla piccola borghesia intellettuale. In questo modo Gramsci superava di fatto la “questione meridionale”, collocando il Mezzogiorno in un disegno complessivo di rifondazione nazionale attraverso le sue componenti “popolari”.
E oggi?
Dagli anni analizzati da Salvatore Lupo ad oggi moltissimo è cambiato. Il Mezzogiorno nel frattempo ha conosciuto una fase di rapida industrializzazione che ne ha modificato profondamente la struttura socio-economica. A questa è seguito un processo di ridimensionamento dell’industria stessa e, in tempi più recenti, il tentativo di valorizzare le presunte “vocazioni” dei territori attraverso la strategia dei distretti. Tuttavia, alcuni schemi del discorso meridionalista “classico” (un discorso a parte meriterebbe il “nuovo meridionalismo” del secondo dopoguerra) sono come sclerotizzate nel dibattito pubblico contemporaneo. L’esigenza di un “partito del Sud” viene periodicamente tirata in ballo, a destra o a sinistra, da epigoni sempre più improbabili (e verosimilmente inconsapevoli) di Salvemini. Così come di recente è tornata in auge, rinfocolata dalla retorica “rivendicazionista” di alcuni neo-governatori meridionali, l’aspettativa di un “vento del Sud” in grado di fare tabula rasa di clientele e camarille, in provincia come a Roma (con esiti talvolta grotteschi).
Il merito del libro di Lupo consiste nello storicizzare queste visioni, riportandole al contesto in cui sono state formulate, ma anche nell’evidenziarne i limiti. Tale consapevolezza è tanto più necessaria oggi che il Mezzogiorno mostra, in misura accentuata, le stesse tendenze di fondo che caratterizzano l’intero contesto nazionale. Elaborare soluzioni efficaci per fare fronte ai fattori che stanno determinando il declino complessivo del paese è il presupposto fondamentale per rilanciare la costruzione unitaria a 150 anni dalla sua fondazione.