Scritta bianca su sfondo rosso. “Pacta servanda sunt”. I patti si rispettano. Questa la frase sullo striscione dietro al quale esplode la rabbia, quasi improvvisa, degli operai dell’Ilva di Genova-Cornigliano guidati dalla FIOM-CGIL. Ma le avvisaglie si erano avute già agli inizi del mese di gennaio, tra scioperi, occupazione e rotture sindacali: da una parte la Fiom (prima organizzazione all’Ilva di Cornigliano) e la Failms, con una linea più dura e decisa, dall’altra la Fim e la Uilm, con un atteggiamento decisamente più morbido.
Tre giorni di mobilitazione e di altissima tensione per rivendicare la presenza di un esponente del governo al tavolo già fissato per il 4 febbraio, presenza considerata propedeutica per avere una parola chiara e definitiva sul rispetto dell’Accordo di Programma firmato nel 2005. Alla fine del terzo giorno di sciopero il governo comunica che all’incontro del 4 febbraio sarà presente il sottosegretario Simona Vicari, e le mobilitazioni vengono momentaneamente interrotte. Anche se la battaglia si annuncia lunga e difficile.
Ma per capire gli umori odierni degli operai di Genova bisogna tornare indietro nel tempo e ricostruire la storia della fabbrica e il contesto nel quale si sviluppano i fatti, soprattutto dagli anni Ottanta in poi.
Genova, medaglia d’oro alla Resistenza, è città di forte tradizione industriale e operaia. L’atto costitutivo della prima Ilva fu redatto proprio nel capoluogo ligure, nel 1905. Tra il 1938 e il 1942 viene realizzato lo stabilimento di Cornigliano, smontato dai tedeschi e inviato in Germania dopo l’8 settembre 1943. Nel dopoguerra, con il piano per il rilancio e la riorganizzazione della siderurgia italiana elaborato dal presidente Finsider, Oscar Sinigaglia, il siderurgico ligure viene ricostruito: nel 1953 torna in funzione. Il nuovo e moderno stabilimento siderurgico è originariamente costituito da 2 altoforni, una cokeria, un’acciaieria e un treno di laminazione a caldo; in seguito viene potenziato con l’aggiunta di un terzo altoforno, un laminatoio a freddo e un reparto di zincatura. Raggiunge nel corso degli anni una capacità produttiva di circa 2 milioni di tonnellate, e circa 7.000 occupati; il quartiere di Cornigliano, a sua volta, conosce uno sviluppo demografico che al suo apice tocca i 30.000 abitanti.
La fase di privatizzazione avviene negli anni Ottanta, in un contesto di crisi produttiva ed economica. Nel 1986 gli impianti vengono venduti alla Cogea (Società Consorzio Genovese Acciaio), composta per il 67% da imprenditori privati – Riva e Lucchini, tra gli altri –, mentre Finsider mantiene il 33%. Tra il 1988 e il 1995, con la progressiva e definitiva liquidazione di Finsider e Italsider, il gruppo Riva acquisisce interamente gli stabilimenti di Cornigliano e di Taranto.
Parallelamente alla fase più acuta della crisi che porterà alla privatizzazione, si sviluppano a metà degli anni ’80 i primi contrasti tra esigenze produttive ed emergenze ambientali. I monitoraggi dell’aria trovano nel quartiere di Cornigliano elevatissime concentrazioni di inquinanti; studi epidemiologici affermano che quegli inquinanti sono causa di malattie anche gravi: i dati del Ist (Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro) di Genova, e gli studi di Legambiente, dimostrano che l’incidenza dei tumori nel quartiere di Cornigliano è superiore rispetto al resto della città. Alla fine degli anni ‘80 il dibattito diventa serrato, sulla spinta di associazioni e comitati come le “donne di Cornigliano”, ma anche grazie a uomini come Franco Sartori – segretario della Fiom prima e della Cgil poi –, che fino alla fine si è impegnato nel difficile tentativo di ricercare un equilibrio tra ambiente e lavoro.
Nel 1996 si avvia la trattativa per la chiusura dell’area a caldo, che porta nel 1999 alla firma del primo Accordo di Programma, anche grazie alla legge 9 dicembre 98 n.426, che ne prevede la stipula e le parti salienti. L’accordo stabilisce la chiusura entro un termine stabilito dell’area a caldo, con bonifica e riqualificazione delle aree dismesse. La salvaguardia dell’occupazione – al netto dei prepensionamenti – viene affidata al piano industriale che, oltre all’implementazione dell’area a freddo, prevede la costruzione di un forno elettrico, in sostituzione del vecchio ciclo a caldo. Nella fase di transizione verso la realizzazione di questi impianti, i lavoratori avrebbero goduto degli ammortizzatori sociali. L’accordo rimarrà inapplicato. Nel 2001 la legge n. 448 stabilisce la definitiva chiusura di tutte le lavorazioni a caldo e la sdemanializzazione delle aree appartenenti all’Autorità Portuale in concessione ai Riva, che vengono date in gestione alla Regione Liguria, nonché la garanzia di continuità occupazionale per tutti i lavoratori interessati. Si susseguono accordi a tutti i livelli per la chiusura dell’area a caldo, ma le alternative e le bonifiche tardano ad arrivare. Nel frattempo, nel 2002, la Magistratura chiude la cokeria e il progetto di forno elettrico, così come presentato dai Riva, viene definitivamente bocciato dal Ministero dell’Ambiente per la negativa Valutazione di Impatto Ambientale.
Nel 2003 viene fondata la Società per Cornigliano Spa, interamente a capitale pubblico (tra i soci, Regione Liguria al 45% , Provincia e Comune di Genova, entrambi con il 22,5%), a cui viene assegnata la bonifica e il recupero delle aree dismesse.
Nel 2004 un incidente all’altoforno porta gli operai in sciopero; i lavoratori chiedono chiarezza, e l’attuazione degli ormai innumerevoli accordi. Un anno dopo, con l’ultima colata del 29 luglio 2005, si ferma l’altoforno – l’unico rimasto in funzione –; quella produzione sarà dirottata a Taranto. Si arriva così alla firma, nel 2005, dell’atto modificativo dell’Accordo di Programma del 1999: l’area a caldo viene definitivamente chiusa e si stabilisce di reimpiegare i lavoratori in esubero – dopo un periodo di transizione di ammortizzatori sociali e lavori socialmente utili a sostegno del reddito – nell’ampliamento delle lavorazioni a freddo. Fra le altre cose, il nuovo piano industriale prevede: una nuova linea di zincatura, la costruzione di una centrale termoelettrica, e investimenti sulla banda stagnata – oltre alla definitiva rinuncia alla costruzione del forno elettrico.
La Società per Cornigliano diventa così proprietaria di un’area di 1.315.000 mq. Vengono anche riordinate le concessioni: l’area della ex siderurgia a caldo, di 265.000 mq, viene destinata, dopo la bonifica, alle infrastrutture, a funzioni logistico portuali e a riqualificazione urbana; mentre a Ilva viene affidata un’area di 1.050.000 mq – con diritto di superficie fino al 2065 –, ai quali devono aggiungersi 44.000 mq di proprietà, più la rinnovata e adeguata concessione sulla banchina di 76.000 mq.
Iniziano le bonifiche. L’abbattimento spettacolare dei gasometri e dei camini porta ottimismo: il cielo è tornato blu e nessun licenziamento è stato effettuato. Genova sembra aver superato la contrapposizione tra salute e lavoro. Ma qualcosa inizia ad andare storto: l’Ilva non completa gli investimenti, indecisa sulla linea industriale da adottare, e le alternative riescono a riassorbire solo pochi addetti. Nel frattempo, l’occupazione passa dalle 3.000 unità del 2005 alle 1.750 di oggi, di cui più della metà a carico degli ammortizzatori sociali; nessun licenziamento, ma posti di lavoro che non vengono reintegrati.
Con la crisi di Taranto la situazione peggiora: i Riva escono di scena senza attuare gli investimenti promessi, il recupero delle aree dismesse risulta ancora incompleto e gli ammortizzatori sociali sono in scadenza.
L’Accordo di Programma, presentato come “un raro esempio di raggiunto equilibrio tra le imprescindibili esigenze ambientali e le legittime preoccupazioni occupazionali”, sottoscritto senza tenere conto delle crescenti e legittime esigenze ambientali di Taranto, risulta ancora sostanzialmente inapplicato in alcune sue parti fondamentali. Con la vendita del gruppo decisa dal governo rischia di fallire il tentativo quasi trentennale di tenere insieme lavoro e ambiente. I lavoratori, in particolare, avvertono il pericolo di perdere lavoro e reddito. Eppure quell’accordo, quel patto – che stride fortemente con quel “mantenimento di adeguati livelli occupazionali” contenuto nel bando di vendita di Ilva –, rimane l’unica speranza per i lavoratori di Cornigliano. Per questo a Genova si chiede che “Pacta servanda sunt”. Nel frattempo, a Taranto, tutto appare fermo, mentre dal governo continuano ad arrivare rassicurazioni occupazionali non troppo convinte e convincenti, per Genova come per Taranto. Ma, come si sa, “verba volant scripta manent“.