ma oggi non possiamo fare a meno
di riconoscere che un vero approccio ecologico
diventa sempre un approccio sociale,
che deve integrare discussioni sull’ambiente,
per ascoltare tanto il grido della terra
quanto il grido dei poveri
Papa Francesco, “Laudato si”
A Taranto è primavera. La gente esce più volentieri dalle proprie case a passeggiare per le vie della città, allietata dal sole tarantino, distratta e quasi indifferente riguardo al futuro che attende la propria terra. Sono giorni dell’anno in cui tutto sembra mostrarsi più bello e colorato. Anche in una città in difficoltà come la nostra, in questo periodo, ci si sente più propensi a guardare il bello che ci circonda: i tramonti rosseggianti, che sembrano quasi dipinti dai pennelli di un artista; oppure, volgendo lo sguardo un poco oltre, la magia del cielo che si incontra con il mare senza mai toccarlo veramente.
Le notizie arrivate da Roma però scuotono a bruciapelo la primavera tarantina e fanno di Taranto una polveriera pronta ad esplodere. Nei giorni scorsi infatti il bando di vendita dell’Ilva, approvato a gennaio del 2016 dal governo Renzi e dal suo ministro Federica Guidi, dopo una lunga attesa e numerosi rinvii, ha emesso il suo primo responso ufficiale: i commissari straordinari, valutati i piani ambientali e industriali delle due cordate, nonché l’offerta economica, hanno sciolto la riserva dando indicazione per la cordata AM INVESTCO ITALY – composto da Arcelor Mittal (85%) E Marcegaglia (15%), con il supporto di Banca Intesa SanPaolo. Un verdetto che sembra sorvolare sulle analisi dei tecnici degli stessi commissari, secondo cui il piano industriale e ambientale della cordata vincente appare del tutto superficiale e lacunoso. Senza contare inoltre la mannaia dell’antitrust europeo che ha già messo in guardia le istituzioni italiane.
Finalmente dunque le carte vengono scoperte, anche se solo parzialmente, e così si apprende che la cordata capeggiata da Mittal, oltre ad avere un piano industriale e ambientale discutibile, mette sul piatto un numero di esuberi pari ad almeno 5.800 persone in tutto il gruppo; di contro, la cordata capeggiata da Jindal, sebbene presenti un piano industriale e ambientale più preciso e credibile, prevede comunque esuberi per almeno 3400 unità. Dai piani alti governativi, più o meno velatamente, si prova ad addolcire la pillola precisando che ci saranno ammortizzatori sociali, che i numeri possono abbassarsi tramite una riduzione di salario e una maggiore flessibilità, che l’accordo sindacale è vincolante per il perfezionamento dei trasferimenti degli asset produttivi.
Lo scenario che sembra profilarsi è una divisione dei lavoratori: quelli da tenere dentro la nuova azienda e quelli da legare agli ammortizzatori sociali, abbandonati al proprio destino. Incerta rimane anche la questione produttiva e del risanamento ambientale. Il tutto dovrebbe avvenire scaricando la responsabilità di questo scempio sui lavoratori e sui sindacati. Ripercorrendo un schema collaudato in questi anni in altre vertenze e in altre parti d’Italia: chiedere a sindacati e lavoratori di sottoscrivere un sacrificio per salvare il salvabile. Il solito ricatto del “o questo o niente”, che va rigettato al mittente e respinto con forza. Insomma dell’Ilva, e dell’intero settore siderurgico, nel giro di pochi anni potrebbero rimanere solo macerie, indebolendo ulteriormente l’economia nazionale.
I sindacati Fim, Fiom, Uilm, Usb, nel frattempo alzano le barricate, respingendo qualsiasi ipotesi di esubero, e criticando i piani ambientali/industriali delle due cordate, che non garantirebbero una soluzione in grado di tenere insieme lavoro, salute, ambiente e produzioni. Con queste rivendicazioni proclamano una prima giornata di sciopero in concomitanza dell’incontro al Mise di giovedì scorso.
Lo sciopero inizia alle 11; la partecipazione al presidio è massiccia. La fabbrica si svuota e le produzioni si fermano. Gli operai arrivano alla spicciolata, con i volti tesi e preoccupati. In pochi minuti la portineria della direzione Ilva si riempie. Lo spazio è angusto anche per via di alcune transenne che delimitano dei lavori in corso. Il sole è caldo ma sembra bollente, quasi infuocato. Gli animi si accendono un po’ quando da Roma giungono notizie di un nulla di fatto e di un rinvio della trattativa alla settimana prossima. I toni si alzano e si accende qualche scaramuccia, soprattutto sulle modalità di prosecuzione della protesta. E così anche la classe operaia, seppure in qualche individuo e solo in sparuti episodi, mostra i segni di una divisione e di un disorientamento di cui è intrisa tutta la città. Complice una campagna di inquinamento del pensiero che va avanti da molti anni e che sembra farsi strada ogni volta che la situazione pare precipitare.
Si insinuano così teorie e intenzioni che alla lunga, in maniera consapevole o meno, hanno come unico risultato l’ulteriore divisione: si va da una delegittimazione della rappresentanza sindacale eletta democraticamente appena sette mesi fa con un mandato preciso – quello di tenere insieme lavoro, salute e ambiente -; si passa per la rivendicazione di “bloccare la fabbrica” – come se lo sciopero non fosse un modo, il modo, per fermare le produzioni e rivendicare qualcosa, a meno che non si voglia pensare che la fabbrica è capace a produrre anche senza dipendenti -; e si arriva all’argomento più divisivo: il rifiuto di bloccare la città, inteso come se qualcuno volesse colpirla a morte. In realtà non è mai stato così. Coinvolgere la città , anche con modi forti, è sempre stato, da che mondo e mondo e in tutti i luoghi di conflitto, un modo per unire le forze, per urlare la drammaticità di una situazione che riguarda tutti, per chiederne aiuto e solidarietà, per far si che le persone si riconoscano nelle problematiche comuni e si uniscano. Un modo insomma per combattere insieme alla città e mai contro di essa.
È evidente che dietro questa voglia di voler tenere la protesta in un recinto, evitando di allargarla e di condividerla, dietro questa smania di colpire i sindacati – che è bene ricordarlo sono i rappresentanti dei lavoratori e quindi i lavoratori stessi-, si nascondono divisioni più profonde e trasversali: tra chi vuole salvare ambiente, lavoro e fabbrica e chi vuole chiuderla; tra chi vuole andare avanti e chi tornare indietro; tra chi vuole tutto e chi vuole che tutto crolli; tra chi crede che “ci sono due crisi separate, una ambientale e un altra sociale” e chi crede invece che ci sia “una sola e complessa crisi socio-ambientale”
Intanto l’undici giugno la cittadinanza sarà chiamata al voto per eleggere il Sindaco e rinnovare il consiglio comunale, dopo 10 anni di amministrazione capeggiata da Ippazio Stefàno – esperienza apertasi con molte speranze, e che invece si chiude in maniera discutibile ed opaca. Il medico che doveva curare la comunità pare aver fallito miseramente nel suo obiettivo, pur riuscendo a rimanere in carica per due mandati consecutivi, cosa che non accadeva da ormai molti anni nella nostra città. E quella comunità che andava curata sembra oggi addirittura più smarrita e sfilacciata, piegata dai numerosi colpi subiti.
Una campagna elettorale strana e con pochi punti di riferimento: difficile distinguere le differenze ideologiche e programmatiche; più facile invece affidarsi alla fiducia ispirata dai simboli, dalle storie personali e dai volti dei candidati. Molte le facce note e un po’ logore, ma anche nomi e visi nuovi, freschi e puliti, pronti a mettersi in gioco e dare un contributo per la rinascita della città.
Nei programmi elettorali, insieme ai soliti temi, aleggia come uno spettro ingombrante la questione Ilva, affrontata da tutti con accenni e sfumature diverse, soprattutto in relazione alla questione ambientale e della salute. Probabilmente fra i 10 candidati a sindaco e fra gli oltre mille candidati al Consiglio comunale in pochi avevano previsto che c’erano da difendere anche i posti di lavoro. E così negli ultimi tempi il tema Ilva risulta essere, almeno fino a ieri e dopo una martellante monoinformazione, un argomento del quale improvvisamente non si vuole più parlare, sebbene la situazione sembri lontana dal risolversi e anzi tenda a peggiorare inesorabilmente. Scomparsi anche i toni e la veemenza delle soluzioni proposte. Probabilmente una maggiore consapevolezza sui reali poteri di un sindaco – o forse il timore di insistere troppo su un tema e su una problematica che nessuno sa bene come risolvere – fanno diventare la questione dell’Ilva quasi di contorno. Si nota una certa timidezza nel commentare la situazione esplosiva che sembra prefigurarsi; languono le dichiarazioni ufficiali dei candidati sindaco sul tema, e quando arrivano sono tardive e blande. Una città – intesa come comunità – sana, di fronte alle notizie di questi giorni, si sarebbe stretta intorno ai suoi lavoratori, e invece sembra che si preferisca lasciarli da soli, lasciare isolati i sindacati – perché in fondo potrebbe tornare utile usarli per scaricare su di loro tutte le colpe.
A Taranto inspiegabilmente si avverte quasi imbarazzo nel difendere a spada tratta i lavoratori, tra le 4 e le 6000 unità che rischiano il posto di lavoro in tutto il gruppo Ilva. Numeri da far tremare i polsi, soprattutto se si considera che la maggioranza di questi esuberi riguarderanno proprio lo stabilimento di Taranto, che da solo di dipendenti ne conta oltre diecimila, a cui devono aggiungersi i numeri di appalto e indotto.
Numeri da far tremare i polsi soprattutto se si considera, che quei numeri sono volti, famiglie, bambini. Soprattutto se si pensa a quello che abbiamo già dato. Ma molti polsi rimangono quieti e sembra quasi che si preferisca guardare da un altra parte, quasi con indifferenza, ognuno con le proprie idee. Con la speranza che la patata bollente non cada nelle proprie mani.
Ancora sacrifici quindi, e sempre più pesanti, in un territorio già martoriato. Non sono bastate la perdita di posti di lavoro e la disoccupazione galoppante, i tumori ed i malati, le morti bianche, i dieci decreti, e una città frantumata, quasi abituatasi a restare perennemente con il fiato sospeso. È questo lo scenario contro il quale rischiano di infrangersi le speranze di chi credeva – e ancora crede – che la situazione si possa salvare tenendo insieme tutto, senza essere costretti a scegliere tra due diritti che ci spettano entrambi. Di contro, non aumentano le speranze di chi invece propone fantomatiche soluzioni che prevedono la chiusura della fabbrica, e che di fronte allo scenario che si prefigura appaiono sempre più vuote e inconsistenti.
E allora cosa fare? In una campagna elettorale nella quale tutti in qualche modo sono in gioco, in un finale di primavera che annuncia un’estate rovente, una cosa forse si potrebbe tentare: guardare in faccia la realtà. Mettere da parte gli egoismi e gli errori di cui quasi tutti hanno pieno il curriculum, uscire dalla tenaglia in cui ci siamo ficcati. Ricordarci che siamo comunità e che siamo tutti in mezzo, stretti tra il cielo e il mare. Unirsi e ritrovare nel senso di collettività e nella solidarietà l’unica strada percorribile. Ma il senso di comunità che si ricerca da anni sembra ancora lontano dal costruirsi.
Lontano. Come quando nelle passeggiate primaverili si volge lo sguardo un poco oltre, laddove il cielo e il mare, come per magia e senza mai toccarsi veramente, sembrano incontrarsi.