“La fabbrica è una condanna senza reato“
(S. Valenti, La fabbrica del panico, pag. 26)
Confrontarsi con l’opera di Stefano Valenti, ai piedi delle ciminiere Ilva di Taranto, si è rivelata un’attività politicamente appassionante – oltre che letterariamente suggestiva ed intensa. Il primo romanzo dello scrittore valtellinese – una drammatica poetica del lavoro, dell’alienazione e del rifiuto – si presta a letture multiple, incrociate, sovrapponibili. L’intreccio costante tra temporalità e spazialità differenti – il lavoro operaio del padre dell’io narrante nella fabbrica Breda fucine di Sesto San Giovanni negli anni del massimo sviluppo del sistema di produzione fordista, e l’impiego attuale, compiutamente precario, del narratore – rimanda a suggestioni antiche, ad una storia dimenticata, rimossa, marginalizzata, e allo stesso tempo indica la necessità di connetterla con il dilagante presente. Un doppio movimento, dai ritmi standardizzati e disumani della produzione massificata alla temporalità attuale, scandita in maniera incessante dalla straniante e onnipervasiva regola del profitto e ulteriormente afflitta dall’incertezza, dalla discontinuità lavorativa e dall’assenza di forme di tutele sistemiche.
La fabbrica. La suggestiva opera narrativa di Valenti sembra parlare direttamente al contesto tarantino, di oggi e di ieri. La sua è una storia geograficamente e storicamente situata, che si tuffa nella realtà, la assorbe e la esplora, per poi donarla, con efficace forza paradigmatica, a tutti coloro che, per vivere, devono vendere la propria forza lavoro in cambio del salario.
È indubbiamente vero che il mondo si presenta sotto forma di fabbrica (p. 26) per chi, con angoscia, estraneità e passività, è costretto a consacrare la propria esistenza alla catena di montaggio, piegato dai ritmi della produzione e governato dalla disciplina di fabbrica, finché una vita normale diventa una vita invivibile. È allo stesso tempo vero che la fabbrica si presenta sotto forma di mondo: la fabbrica diffusa dell’esistenza contemporanea, nella quale la separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita è sempre più sfumata, e le regole del profitto invadono ogni rapporto sociale. Questo intreccio tra l’alienazione dei corpi disciplinati in fabbrica e quella che domina le vite precarie nei gangli produttivi nella fabbrica diffusa cittadina è uno dei grani assenti nelle narrazioni del mondo del lavoro in riva allo Ionio.
La condanna. E se il punto di partenza per una politica della ricomposizione delle forme di vita alienate, risiedesse proprio nella necessità di raccontare in maniera più sincera, più ancorata al reale e meno edulcorata la condizione generale di condanna che – su fronti diversi – operai e precariato metropolitano sono costretti, senza soluzione di continuità, a espiare? Qui risiede uno dei tanti dispositivi di lettura politica della realtà contemporanea che la lettura de La fabbrica del panico, in maniera straordinariamente efficace, suggerisce.
Non l’apologia del lavoro operaio come strumento di partecipazione al benessere collettivo, né del lavoro cognitivo precario come meccanismo di liberazione dalla disciplina di fabbrica. Ma il primo come forma di costrizione nei confronti di chi soltanto a prezzo di un’immensa violenza su di sé, di una crudeltà smisurata, sopporta un’istituzione talmente oppressiva (p. 42); il secondo come meccanismo di riproduzione della logica del profitto dissimulata dalla retorica dell’autovalorizzazione di sé e dell’autoimpiego come elemento di immediata emancipazione.
Il reato. L’attività centrale, a questo punto, anche alla luce dell’evidente drammaticità della condanna in questione, risiede nella necessità collettiva di individuare dove risiede il reato, che, seppur non commesso, diventa il presupposto logico che prefigura la pena. Il reato risiede tutto nell’appartenere alla razza umana destinata a far da concime al terreno del capitale e a creare la ricchezza di alcuni più che di altri (p. 105): la condizione necessaria e sufficiente per dover vivere la condizione di condannato senza soluzione di continuità, risiede nel dato biografico e sociale di appartenenza a quella ampia fetta della umanità che deve cedere le proprie potenzialità corporee ed intellettive in cambio di un salario tendenzialmente così basso da rendere necessario il dover ritornare, l’indomani, a dover nuovamente vendere il proprio corpo e il proprio intelletto.
Vie di fuga. Il romanzo di Valenti lascia intravedere, allo stesso tempo, possibili linee di frattura, di interruzione del dominio e di riconciliazione con le proprie facoltà di vita. Non c’è traccia di autocommiserazione, né di fiera accettazione dello stato di cose esistenti. La narrazione della pervasività dell’alienazione causata dal rapporto di lavoro salariato è così poeticamente efficace da rivelarsi, in definitiva, una circostanza storica determinata, un’opzione – quella del lavoro salariato e del rapporto di capitale come forma di governo della vita – legata alla stretta contingenza dei rapporti di forza. Un’esperienza storica, quindi: non un elemento naturale, né la forma definitiva dell’organizzazione sociale.
Le possibili linee di fuga che provano a mettere in crisi l’esistenza storica del lavoro salariato attraversano costantemente il romanzo, mettendo in discussione la riproducibilità stessa della fabbrica del panico. C’è una linea di fuga plurale e molteplice all’interno del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro, luogo dell’organizzazione dell’opposizione operaia alla disciplina di fabbrica, alla nocività ambientale ed esistenziale. C’è un’altra linea di fuga, intima e politica allo stesso tempo, che caratterizza l’esperienza di vita del protagonista del romanzo: un operaio che si autosottrae dal flusso incessante di innocenti che scendevano in piana per far funzionare la fabbrica (p.15). E’ la storia, spesso rimossa, dell’evasione dai dispositivi disciplinanti, in difesa della propria libertà e salute, del rifiuto del lavoro alla ricerca di comportamenti sociali antiproduttivi, infinitamente più gratificanti e capaci di realizzare, in forma libera e creativa, le potenzialità umane.
È un’umanità dirompente, tutta situata nella lotta organizzata e nella ricerca di controcondotte personali, nel tentativo di essere altro rispetto alla standardizzazione fordista – e, allo stesso tempo, di alterità nei confronti della retorica dell’uomo impresa e dell’universo generalizzato della competizione – che attraversa, in definitiva, lo straordinario esperimento narrativo rappresentato da La fabbrica del panico: una cartografia poetica della disciplina del lavoro – di ieri e di oggi – indispensabile per chi, anche a Taranto, tra i fumi del passato industriale e nel presente della precarietà dilagante, prova ad immaginare uno spazio e un tempo privi di rapporti di capitale.
In questa città incapace di riconoscere altro da sé, incapace di accettare figure diverse da quelle dell’industriale e del banchiere, dell’operaio, in questa città in cui la figura dell’intellettuale è uniformata e quella dell’industriale è esaltata, e la figura dell’operaio è mortificata, in questa città, la mia famiglia, e uomini della mia condizione sociale, della mia classe, sono umiliati. (pag. 66)