A quattro anni dalla rivolta di Nardò, quella intensa stagione di scioperi e disobbedienze contro le forme estreme di sfruttamento nei campi di Puglia continua a suggestionare e, allo stesso tempo, ad inquietare. E’ facile cogliere gli elementi di suggestione: le pagine dell’appassionante Ama il tuo sogno – vita e rivolta nella terra dell’oro rosso, scritto da Yvan Sagnet, organizzatore e protagonista di quella stagione di lotta, sono una ventata d’aria fresca, in un clima politico nel quale la parola rivolta e sembra espulsa dal linguaggio politico contemporaneo, anche a sinistra. Anche gli elementi di inquietudine sono altrettanto evidenti. Sono passati quattro anni dalle straordinarie mobilitazioni di Nardò contro il caporalato, il lavoro nero e le aziende coinvolte, ma le condizioni di lavoro e di vita nelle nostre campagne sono tutt’oggi drammatiche e segnate dal più profondo sfruttamento. Tragiche morti durante il lavoro nei campi hanno occupato le pagine dei quotidiani per brevi periodi della scorsa estate, finendo presto nel dimenticatoio. Cosa è successo dal 2011 ad oggi, sul fronte delle lotte sindacali nelle campagne pugliesi? Quali possono essere gli strumenti di intervento sindacale più efficaci? Ne abbiamo parlato con Yvan Sagnet, protagonista di quella stagione di mobilitazioni, autore dell’intenso libro biografico Ama il tuo sogno e attivista sindacale per la Flai-Cgil.
Yvan, sono passati quattro anni dalla rivolta di Nardò. Che emozioni provi ripensando a quel periodo intenso, difficile, entusiasmante?
Si tratta del primo sciopero di braccianti stranieri in Italia. Provo ancora oggi una nostalgia pensando a quelle giornate intense dove la speranza per una migliore condizione lavorativa e sociale superava le difficoltà alle quali eravamo sottoposti. Per noi i valori, la dignità e i diritti avevano il primato sulla condizione materiale. E’ stata un’esperienza unica del genere, indimenticabile. Pagherei tutto per riviverla.
Cosa è cambiato, dal punto di vista del rapporto tra sindacato e lavoratori stranieri, dopo la vostra esperienza di sciopero e mobilitazione?
Se ci limitiamo all’area di Nardò, da allora molte cose sono cambiate. L’assenza di risposta da parte delle istituzioni in una prospettiva a lungo termine ha scoraggiato i lavoratori ed ha ridato forza ai caporali che si sono riorganizzati per il controllo della manodopera. In un contesto fatto di intimidazioni e minacce nei confronti dei lavoratori e degli agenti sindacali, diventa molto difficile per il sindacato operare basandosi sulla forza lavoro. Per questo è costretto ad usare altri mezzi per tutelare al meglio i diritti di quei lavoratori. In generale, quello sciopero ha consentito ai lavoratori stranieri di conoscere meglio il sindacato ed al sindacato di stringere rapporti con i lavoratori. Rispetto a quattro anni fa, in Italia oggi i braccianti stranieri grazie alle iniziative e lotte sindacali conoscono un po’ più i loro diritti e non è un caso se assistiamo ad un incremento di denunce da parte loro.
Analizzando le situazioni di più intenso sfruttamento nelle campagne pugliesi, si parla poco del territorio tarantino. In realtà anche nei nostri campi il sistema del caporalato e le aziende ad esso collegate continuano a gestire una fetta importante dell’economia locale. Quali sono i territori, nella provincia di Taranto, che registrano forme più intense di sfruttamento nelle campagne?
Storicamente la provincia di Taranto insieme a quella di Brindisi è sempre stata una terra di caporalato che colpisce in particolare le donne. L’epicentro del caporalato in questa provincia si trova nella sua parte occidentale. Basta recarsi presto la mattina nelle piazze di Ginosa, Ginosa Marina, Massafra, Grottaglie, Castellaneta, San Giorgio Ionico e vedere decine di pullman di caporali pieni di lavoratrici in partenza verso le fabbriche e le campagne del Metapontino e del Nord Barese per la raccolta e la lavorazione dei prodotti ortofrutticoli. Il caso più emblematico che ha coinvolto questa terra è stato quello di Paola Clemente bracciante originaria di San Giorgio Ionico deceduta a 150km da casa sua in un vigneto di Andria mentre raccoglieva l’uva per due euro all’ora.
Puoi brevemente descrivere quali sono stati gli elementi decisivi per l’avvio della rivolta di Nardò?
A Nardò in quell’anno molti lavoratori stranieri provenivano da esperienze di lotte diverse, quindi erano più consapevoli dei propri diritti. Ad esempio, molti lavoratori tunisini avevano qualche mese prima partecipato alla rivolta di Tunisi contro il dittatore Ben Ali. I lavoratori stranieri presenti a Nardò e provenienti dal Nord Italia, licenziati dalle fabbriche in seguito alla crisi, avevano maturato diverse esperienze di lotte sindacali. Vorrei anche sottolineare il ruolo delle associazioni di volontariato Finis Terrae e BSA che non si sono limitate all’assistenzialismo classico. Sono andate oltre con un intervento sui diritti. Quindi avevamo di fronte soggetti pronti a qualsiasi rivendicazioni che aspettavano l’elemento precursore che si manifestò qualche giorno dopo.
In che direzione, secondo te, il sindacato dovrebbe aggiornare i propri strumenti di analisi ed intervento, per sindacalizzare percentuali più significative della ormai decisiva composizione migrante della forza lavoro?
La principale caratteristica del lavoro migrante in Italia è l’isolamento fisico. Il bracciante straniero vive in una condizione di invisibilità poiché spesso il suo spazio di vita e di lavoro si sovrappongono. Molti di questi lavoratori vivono nei ghetti molto distanti dai centri abitati e per soddisfare qualsiasi bisogni primari, non avendo i mezzi necessari, si rivolgono ai caporali. Perciò il sindacato dovrebbe intraprendere azioni che vanno incontro a queste persone che difficilmente verranno presso le nostre sedi ed è quello che fa già la Flai Cgil con il ‘sindacato di strada’ che con il camper percorre i vari ghetti e luoghi di aggregazione diffusi nella nostra regione per tutelarli e diffondere i diritti.