La sposa (Bompiani, 2014), di Mauro Covacich, è una raccolta di 17 racconti in cui fatti di cronaca e fatti di vita vissuta dall’autore si mescolano a temi di fantasia, creando un unico flusso di pensieri sul presente.
Il libro metabolizza due reportage letterari seguiti dall’autore (una moderna “ruota degli esposti” e il delitto di Cogne) accostandoli a fatti di cronaca con cui Covacich non ha un rapporto diretto ma che comunque lo hanno colpito, come la vicenda di Pippa Bacca, stuprata e uccisa nei pressi di Istanbul durante un viaggio-performance[1] intitolato “Brides on tour”, compiuto nel 2008 assieme a Silvia Moro. L’autore fa entrare tra queste storie anche quella di un suo eteronimo, Angela del Fabbro: una vita minata dalla precarietà non solo materiale ma anche esistenziale; è a questo concetto più esteso di precarietà che si lega il concetto di sterilità come scelta.
Filo conduttore di tutte le storie è la mancata maternità/paternità ed il senso di incompiutezza.
In copertina Le mie scarpe sono stanche, foto scattata da Pippa Bacca durante la performance Il viaggio della sposa, il 16 marzo 2008, a Sarayevo.
I racconti hanno una struttura narrativa molto musicale; lo stile è chiaro e coinvolgente. È proprio perché racconta la vicenda di Pippa Bacca che ho scelto di leggere questo libro. Ma leggendolo è stato il concetto di sterilità che si è trasformato in tarlo. Ed ho cominciato a pormi domande che non so se troveranno risposta.
Noi non siamo poveri, siamo sterili […]. Noi siamo soggetti sterili, dotati di apparati riproduttivi fertili. Tutto qua.[…]
Fare figli significa smettere di essere figli, significa sottrarre energia preziosa al proprio sostentamento per riversarla nel sostentamento di un altro, significa violentare il proprio egoismo, fare un passo indietro.[…]
Vogliamo essere liberi da responsabilità, leggeri, rapidi negli spostamenti, viaggiatori last minute, esploratori da lonely planet, inquilini di monolocali mansardati, consumatori di quattro salti in padella, frequentatori di tapis roulant, non padri, non madri, ma ovunque potenziali amanti, il tutto per costruire un’altra prolunga, l’ennesima unghia di cemento alla nostra rampa di lancio, anche se abbiamo quarant’anni (o cinquanta, ma diremo sempre quaranta) ed è ormai evidente che non salteremo più, e non lasceremo nessun segno, e il mondo ci supererà senza neanche voltare la testa. Ecco, lungo questo pezzo di strada, almeno lungo questo pezzo, il solo pensiero dei bambini ci fa venire il latte alle ginocchia.
Ho quasi quarant’anni (manca un po’ ai quaranta però mica poi tanto), nessun progetto all’orizzonte, nessuna concreta possibilità di smettere di essere figlia e cominciare a pensare di fare almeno un figlio. Ma io ho scelto? Ho scelta? Sono povera (economicamente, si intende) o sono sterile per scelta, magari per scelta di altri?
Intorno a me ho amiche che gioiscono per la maternità – anche quelle che non ci avresti mai scommesso. Alcune che hanno sofferto di un dolore profondo quando la maternità è stata loro negata. La loro gioia è la mia gioia, il loro dolore il mio dolore.
Ma quindi?
Dopo aver letto questo romanzo ho iniziato a porre attenzione a quello che accade intorno a me, a osservarmi. Ho imparato a guardarmi, a notare quel velo di tristezza e malinconia che mi prende quando le altre – anche quelle che non ci avresti mai scommesso – vivono la gioia o il dolore perché penso: si, va bene, ma io? Che voglio? Il mondo mi supererà senza neanche voltare la testa? Lascerò un segno? Arriverà il momento in cui farò il salto dalla rampa di lancio?
Ci dovete più rispetto, perché alla fine saremo noi a restare soli. E qui, a partire dalla botta di malinconia, comincia un altro pezzo di strada. Di solito è a questo punto che i bambini smettono di starci sulle palle.
[1] Il viaggio-performance consisteva nell’attraversare l’Europa in autostop vestita da sposa