La religione dei sacrifici e i suoi sacerdoti

di Salvatore Romeo (’84)

E’ molto difficile per uno spirito profondamente laico resistere ai tempi che corrono. E’ in corso, infatti, un revival di senso religioso che tende ad impregnare l’intero discorso pubblico. Non ci si riferisce alle puntuali dichiarazioni di questo o quel prelato – sebbene alcune, come quelle del cardinal Bertone sui “sacrifici parte della vita”, siano altamente significative. La vera prorompente invasione di religiosità oggi la si ritrova laddove ce la si sarebbe meno aspettata: nei discorsi sulla crisi economica.

Partiamo da una breve analisi del lessico. Termini come “sacrifici”, “austerità”, “rigore”, “disciplina (di bilancio)” non significano niente dal punto di vista economico: si tratta di metafore; il linguaggio tecnico parlerebbe piuttosto, nei primi due casi, di “diminuzione del potere d’acquisto” e, negli ultimi, di “conseguimento del pareggio (o dell’avanzo) di bilancio”. Ma la metafora non è mai neutra: essa, istituendo un riferimento fra una precisa realtà e un particolare immaginario, stabilisce che quella stessa realtà debba essere interpretata alla luce dei significati e dei valori espressi dal campo ideologico da cui le parole in questione provengono. Nel nostro caso, le espressioni citate rimandano chiaramente al discorso religioso cristiano. Per cogliere meglio il loro significato occorre fare una breve digressione storica.
La lotta contro le passioni è sempre stata un’ossessione del Cristianesimo sin dalle sue origini, ma questo atteggiamento si è intensificato a partire dalla prima età moderna. La sfida che la Riforma lanciò alla Chiesa romana fu di natura essenzialmente etica: a cadere sotto la scure di Lutero furono in primo luogo i comportamenti lassisti (e, in certi casi, lascivi) del vertice della Chiesa del tempo. Di contro, l’etica protestante andò sempre più accentuando la sua deriva rigorista; come ci ha spiegato Max Weber il presupposto di questa rinnovata ascesi era nella nuova scarna visione del mondo che il Protestantesimo in generale – e le confessioni che posero maggiormente l’accento sulla predestinazione, in particolare – diffuse: il mondo e tutto ciò che gli è legato – quindi la sensualità e la volontà – hanno senso per il Cristiano nella misura in cui sono il quadro nel quale Dio lascia i suoi segni; ciò che conta è il significato trascendente delle cose, non il loro immediato godimento. Si trattò di un’inversione di rotta radicale rispetto alla cultura rinascimentale – che aveva finito per influenzare la stessa Chiesa cattolica –, che di contro aveva valorizzato tutto ciò che era attualità e materialità (dalla contemplazione della natura al godimento delle ricchezze, del potere, della sensualità). In un certo senso, con la sua cupa sobrietà, il Protestantesimo cercò di estendere all’intera società i canoni morali di certo monachesimo medievale. Il sacrificio – che passava attraverso l’austerità dei modi di vita, il rigore delle intenzioni e la disciplina delle passioni – era per questi spiriti tristi il passaggio attraverso il quale il buon cristiano si astraeva dal Mondo e cercava di adeguarsi alla volontà di Dio. La stessa Chiesa Cattolica non poté conservare a lungo la sua ambiguità di fronte a questa sfida; essa vi rispose con la sua Riforma (meglio nota come “Controriforma”), la cui punta avanzata in campo etico furono i gesuiti. La mortificazione della volontà e il dominio sulla sensualità predicate dal fondatore dell’ordine, Ignazio de Loyola, nella sua opera in assoluto più significativa (gli “Esercizi spirituali”) era in fin dei conti del tutto analoga a quella sostenuta da Lutero, Calvino e gli altri esponenti della Riforma. Con la fine del Cinquecento, in definitiva, l’intera Cristianità si era convertita al rigorismo etico, facendone un caposaldo della propria dottrina morale.

Se questo è il contesto nel quale i termini che abbiamo citato hanno assunto il significato proprio che ancora oggi gli attribuiamo, che funzione essi svolgono quando vengono traslati nel discorso economico? Posto che il “sacrificio” è un atto di volontà, la riduzione del tenore di vita di un singolo o di una famiglia non si configura più semplicemente come l’effetto di una particolare politica – che persegue specifici principi o interessi –; si tratta bensì di una costrizione che l’individuo deve accettare per assolvere a un compito superiore. Attenzione agli esiti di questa operazione perché con ciò si opera un vero e proprio ribaltamento della realtà: quello che è soggettivo (la decisione politica) diventa oggettivo (una necessità esterna); mentre ciò che è oggettivo (l’impoverimento) diventa soggettivo (l’austerità “auto-imposta”). In questo modo l’autorità che attua le politiche – e le ragioni che la ispirano – è intoccabile, mentre tutte le tensioni che derivano da quel tipo di politiche vengono scaricate sul singolo che le subisce. Il conflitto si “interiorizza”: da conflitto potenzialmente sociale e politico diventa conflitto intra-psichico fra istanze diverse (per dirlo con la psicoanalisi, fra “principio di piacere – che soffre le conseguenze concrete di quelle politiche – e “principio di realtà” – che è chiamato ad esprimere lo sforzo di volontà necessario ad accettare quegli esiti).

Ma che cosa conferisce ineluttabilità ai “sacrifici”? A ben vedere l’origine dell’intera perversione che si è appena descritta è nella carica di fatalità che si attribuisce alla decisione politica – sia quella di aumentare le tasse o ridurre i servizi, precarizzare il lavoro ecc. –: essa sembra promanare da una dimensione assoluta, imperscrutabile, sacra. Proviamo infatti a individuare in nome di chi o di cosa vengono promosse le politiche di austerità: se si cerca una risposta nel discorso pubblico difficilmente ci si libererà da un senso di totale vaghezza. Talvolta sono “i Mercati”, talaltra “l’Europa”… Cioè entità che non hanno nessuna consistenza oggettiva: si tratta di nomi che evocano una potenza che noi, con i mezzi di cui disponiamo, non possiamo controllare. In ultima analisi, si tratta di divinità. Come di queste gli uomini avvertono solo gli effetti senza mai riuscire a individuare con precisione le cause – il dilemma che sconvolse Giobbe –, così nella rappresentazione dell’attuale fase economica vengono riportati i crolli quotidiani delle borse, il declino degli indici della produzione, le percentuali della contrazione dell’occupazione e del reddito, ma ciò che determina tutto questo resta avvolto nel mistero di un’espressione evocativa. Questa non spiega, ma suscita un’impressione di suprema potenza e, di contro, di totale impotenza da parte dell’uomo comune, del singolo che si trova a subire gli esiti della congiuntura. In questo modo la “crisi” appare semplicemente come un destino che si accanisce all’improvviso, frutto del capriccio di entità impalpabili (anche le “Banche” o la “Finanza” sono altrettanti spiriti).
Nella testa di spiriti disorientati non resta a questo punto che la stessa domanda del povero Giobbe “Perchè, o Signore, mi hai condannato a questa vita dalla quale non posso uscire?”. E’ un interrogativo angosciante, che può far crollare ogni certezza e indurre l’individuo ad assumere atteggiamenti eversivi. E’ la reazione che mostra lo stesso Giobbe, quando con logica implacabile affronta i tre saggi venuti a consolarlo, arrivando a mettere in discussione la giustizia di Dio e dunque l’ordine etico della società. Serve una risposta definitiva a quell’interrogativo; una risposta che incanali il malessere in senso conservativo. Come vedremo subito è attraverso la soluzione di questo dilemma che l’individuo passa dallo stordimento iniziale all’assunzione del sacrificio.

La domanda “di chi è la colpa?” è la stessa che Nietzsche attribuisce alla massa dei “deboli”, sconvolti a loro volta da una profonda crisi, ne “La genealogia della morale”. La deflagrazione cui la società va incontro a causa dell’indefinito risentimento di buona parte delle sue componenti viene scongiurata solo attraverso la figura del “sacerdote”. Questi si presenta nella veste dell’asceta, di colui cioè che nega la vita in nome di un ideale superiore; che fa dell’austerità, del rigore e del sacrificio norme di condotta fondamentali. La risposta che egli dà alle folle afflitte è “la colpa è vostra; voi avete violato l’ordine originario delle cose”. Suscitando il senso di colpa egli ottiene una soluzione conservativa della crisi: i singoli rivolgono contro sé stessi il risentimento che avrebbero potuto altrimenti far esplodere contro le istituzioni sociali; dal momento in cui si riconoscono “colpevoli”, essi fanno di tutto per espiare, assumendo un atteggiamento spontaneamente incline a rafforzare quelle stesse strutture.
La proposta del sacerdote, d’altra parte, è tanto più credibile in quanto egli la sperimenta su sé stesso quotidianamente e ciò sembra renderlo più forte e sicuro della gran parte dei suoi simili. In realtà questa forza apparente è il risultato di quella perversione della realtà descritta sopra, che il sacerdote realizza per primo su di sé. Egli infatti è a sua volta un “debole” come gli altri ma, a differenza degli altri, ha ribaltato quella debolezza in forza costruendo sulla sua sensibilità malata – che gli impone il sacrificio come effetto naturale – un codice etico preciso. In questo modo, ancorché conseguenza oggettiva di determinate circostanze, l’austerità è vissuta come scelta. La scelta più feroce – e dunque più degna di ammirazione da parte di chi è abituato a subirla come una condanna.
Infine il sacerdote si mostra come il solo in grado di interpretare i segni confusi che attraversano la realtà e che sembrano rimandare a un’indefinita entità superiore: egli si pone come mediatore fra Dio e Uomo, fra le forze misteriose che sembrano aver provocato la crisi e la realtà, e ciò legittima la sua parola e dunque il suo progetto di salvezza.

Torniamo a noi. Chi altri è il sacerdote dei nostri giorni se non il “tecnocrate”? La descrizione che si dà di quest’ultimo – a prescindere dalla sua identità personale – collima perfettamente con la fisionomia che Nietzsche attribuisce al primo. Il tecnocrate è in grado di interpretare la volontà imperscrutabile delle potenze misteriose che dominano la realtà (i Mercati, l’Europa, la Finanza ecc.) perché in quel mondo si è formato e ha operato prima di ridiscendere fra le umane genti. Egli è quasi privo di passioni apparenti, promana la sobrietà di chi a lungo ha applicato a sé stesso una rigida disciplina delle passioni – l’esatto contrario dei leader “umani, troppo umani” che lo hanno preceduto (non solo Berlusconi col suo prorompente vitalismo, ma anche Papandreou, colpevole di essersi mostrato per un momento sensibile alle richieste del suo popolo proponendo il referendum sulle politiche economiche). E il suo messaggio mira a radicare nella piccola gente confusa la punta del senso di colpa: “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” è il dogma che orienta le sue azioni; o meglio: “le generazioni passate e presenti hanno consumato più di quanto non abbiano risparmiato, generando un debito pubblico spaventoso”. Nella comunicazione pubblica il problema è tutto lì: il debito è il peccato perché ha violato l’originario equilibrio delle finanze pubbliche, ha consentito alle passioni degli Italiani di scatenarsi in un godimento dissennato e, infine, gli si è ritorto contro con tutta la violenza di una nemesi che si compie. Tutta questa narrazione, ripetutaci in mille modi e sfumature differenti, non ha nessun fondamento né economico né razionale. La sua struttura logica è la stessa del discorso religioso criticato da Nietzsche; la sua funzione è di disporre le coscienze individuali al sacrificio, cioè all’accettazione volontaria di una drastica riduzione del tenore di vita, con tutti gli esiti sociali e psicologici che ne conseguono. Si tratta infine di una mistificazione in senso proprio, in quanto opera un ribaltamento della realtà.

Di fronte a questo nuovo “sonno della ragione” che va inghiottendo l’Europa bisogna mostrare il coraggio di rifiutare integralmente l’ordine del discorso che ci si vuole imporre. Il punto d’attacco, per le stesse forze sociali e politiche che si oppongono o si mostrano critiche nei confronti delle politiche economiche adottate dai governi, non può e non deve essere la richiesta di una “redistribuzione più equa dei sacrifici”. La logica del sacrificio è infatti auto-contraddittoria. Spingendo ancora più a fondo la sua critica, Nietzsche rileva che la nuova condotta che gli uomini assumono dopo essersi convinti ad espiare la propria colpa non risolve il loro malessere; ma il sacerdote ha una risposta pronta a questa evenienza: “non si è fatto abbastanza”. Si viene così a determinare una coazione a ripetere potenzialmente inesauribile, in cui la necessità del sacrificio è continuamente rilanciata dalla sua stessa inefficacia. In un circolo vizioso analogo vanno cacciandoci le manovre improntate alla riduzione della spesa pubblica e all’aumento di tasse e tariffe: accentuando la tendenza alla recessione già manifestata dal sistema economico (non solo italiano) esse provocano un incremento del rapporto debito/PIL, che a sua volta sollecita gli investitori a scommettere sul default dell’Italia scatenando così contro i nostri titoli sovrani una nuova tempesta speculativa. Qualora di fronte a questa nuova minaccia si rispondesse con nuovi “sacrifici”, la spirale andrebbe ulteriormente restringendosi: recessione più feroce, attacco più violento ecc. Continuando a prestare ascolto ai sacerdoti-tecnocrati si condurrà pertanto il sistema verso il collasso e si spingerà il conflitto interiore che la logica dei sacrifici impone oltre ogni limite, con esiti imprevedibili per gli equilibri psichici e sociali.

Per scongiurare tutto questo bisogna avere il coraggio di rilanciare il tema dell’espansione della spesa pubblica come fattore di sviluppo e subordinare a questa funzione tutte le altre variabili di politica economica. Non ne otterremmo solo effetti anti-ciclici rispetto alla recessione serpeggiante, ma anche esiti sociali e psicologici liberatori. Non dovremmo mai dimenticare che la battaglia che J.M. Keynes condusse in vita fu duplice: contro i dogmi economici del suo tempo – per subordinare tutte le leve della politica economica agli obbiettivi della crescita e della piena occupazione -, ma anche contro il cupo moralismo della sua gente – perché le donne e gli uomini del futuro non fossero più schiavi degli insani valori dell’avidità, dell’avarizia, della mortificazione dei sensi e dei desideri e potessero finalmente utilizzare gli straordinari strumenti messi a disposizione dal sistema economico per vivere una vita più libera. Il raggiungimento della gioia attraverso il sacrificio è una di quelle prelibatezze che andrebbero lasciate gustare soltanto ai mistici.