Indignazione a senso unico

di Vincenzo Vestita

Nella notte tra il 7 e 8 Giugno, nello stabilimento Ilva di Novi Ligure, perde la vita Pasquale La Rocca, capoturno di 31 anni del reparto spedizioni. Le indagini della magistratura per fare piena luce sull’esatta dinamica dell’incidente e sulle responsabilità oggettive dello stesso, come sempre accade in casi come questi, sono partite d’ufficio ma, dalle prime quanto parziali informazioni, pare che il lavoratore sia rimasto schiacciato dal muletto privo di cabina che conduceva mentre effettuava una retromarcia durante le operazioni di carico. I quotidiani e i blog già dalla mattina del venerdì riportavano la notizia, aggiungendo alla fredda cronaca il particolare secondo cui l’azienda non avrebbe fermato immediatamente la produzione dopo aver constatato il decesso del lavoratore. Pasquale è morto sotto gli occhi dei suoi colleghi di lavoro che, per cercare di salvarlo, hanno utilizzato con una prontezza di spirito purtroppo inutile un carro ponte per sollevare il muletto che lo schiacciava. Mentre il medico del 118 cercava invano di rianimarlo pare che agli altri operai sia stato impartito l’ordine di continuare a caricare lamiere sui camion poiché, spiega Mirko, un operaio presente al momento del tragico incidente, “bisognava mettere in sicurezza il reparto. In quel momento stavamo caricando tre camion e non è possibile farli uscire mezzi pieni: o escono vuoti o pieni.” I sindacati ad un’ora dall’incidente proclamano lo sciopero. Massimiliano Repetto, rappresentante sindacale unitario, riporta come, da un suo giro successivo durante il turno di notte, nei padiglioni dello stabilimento era tutto bloccato, aggiungendo che nei padiglioni più lontani, non essendo probabilmente riusciti a sapere in tempi brevi cosa fosse successo, si sia continuato a lavorare più a lungo. L’indignazione e la rabbia degli operai di picchetto e in sciopero davanti la fabbrica piemontese la mattina successiva, era palpabile. Contestavano fortemente  sia il fatto che tra gli impiegati (quelli che vengono chiamati “i caschi bianchi”) la partecipazione allo sciopero era praticamente nulla sia che i vertici aziendali, nella persona del direttore dello stabilimento di Novi Ligure, Orlando Rotondi, informato in tempo reale di qualsiasi cosa accada di rilevante nei reparti tanto di giorno quanto di notte, non avesse fermato immediatamente la produzione. Parte di quella indignazione è giunta fino alle rive delle Jonio, probabilmente veicolata dal fatto che l’incidente è avvenuto in uno stabilimento del gruppo Riva. La notizia veniva lanciata più volte sui profili dei social network, accompagnata da commenti più o meno liberi. Com’è possibile che un’azienda continui a produrre e a pensare al profitto,  anche con un corpo esanime ancora sul posto coperto da un lenzuolo bianco? Perché tanta disumanità? Personalmente credo che il conformismo oramai imperante abbia derubricato anche l’indignazione ad uno stanco, veloce quanto inutile rito, privandola di quella sua dirompente valenza di rifiuto delle ingiustizie, soprattutto quando non si riesce a cogliere il sottile e quasi impercettibile filo che lega tra loro queste ultime. Probabilmente molti hanno dimenticato che nel 2008, a tutti quei lavoratori che scioperarono in seguito all’ennesimo incidente mortale nello stabilimento siderurgico tarantino, furono decurtate 150 euro dallo stipendio, in base al mancato rispetto delle procedure di raffreddamento per la proclamazione degli scioperi, ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che non esiste arma migliore per fiaccare le resistenze che colpire là dove le necessità sono più forti e pressanti.

Nelle stesse ore circolavano attraverso gli stessi canali due notizie che avrebbero dovuto scatenare moti di indignazione almeno pari alla morte del lavoratore di Novi Ligure.

La prima riguarda una liberatoria fatta firmare ai propri lavoratori dalla Forme Physique di Carpi e a quanto pare anche da altre aziende che sorgono tra Modena e Reggio Emilia, duramente colpite dal fortissimo sisma che ha interessato l’Emilia Romagna e che ha richiesto proprio tra i lavoratori il più alto tributo di sangue. In base ad una circolare del 2 Giugno in cui la protezione civile assegna al titolare delle imprese la responsabilità della certificazione dell’agibilità del proprio capannone, utilizzando anche tecnici privati per accelerare i controlli, alcuni di questi imprenditori hanno avuto la brillante idea di scaricare questa responsabilità sulle spalle dei propri lavoratori attraverso una liberatoria in base alla quale “ciascun dipendente che ritiene opportuno continuare a svolgere la propria attività libera la proprietà da qualsiasi responsabilità penale e civile”. Ogni ulteriore commento mi sembra superfluo.

La seconda riguarda il licenziamento di Antonio Urbinati, un operaio di 56 anni della Marr, un’azienda riminese del settore alimentare. Antonio è un RLS, Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza, che margine di un convegno sulla sicurezza organizzato dalla CGIL nazionale a fine gennaio di quest’anno rilasciò a dei giornalisti locali alcune riflessioni, in particolare sul tema degli appalti. In sostanza aveva affermato che un numero consistente di lavoratori andati in pensione o a cui era stato imposto un cambio per una mansione che non riuscivano più a sostenere, erano stati sostituiti con lavoratori delle cooperative, meno tutelati. Una verità palese ma sottaciuta ovunque che gli è costato il licenziamento a distanza di poco meno di un mese dalla sua intervista con la motivazione di “aver fatto dichiarazioni lesive dell’immagine dell’azienda”. La Filcams CGIL dopo aver organizzato un presidio davanti l’azienda annuncia che il licenziamento verrà impugnato ma intanto la condizione di RLS non ha tutelato il lavoratore. Secondo quanto stabilito dal Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro (81/2008) il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza “è autorizzato a rivolgersi alle autorità competenti per sollecitare il loro intervento, qualora ritenga che le misure di protezione adottate siano insufficienti”. Il caso di Antonio Urbinati non è un caso unico e isolato e il numero esatto di RLS che hanno perso il lavoro per motivi in qualche modo legati all’esercizio della loro funzione non è facilmente quantificabile, anche perché nel Testo Unico 81/2008 non c’è alcun riferimento alla possibilità di licenziare in seguito a dichiarazioni rese all’opinione pubblica.  Inoltre con la riforma del lavoro Monti/Fornero mettere alla porta i Rappresentanti dei Lavoratori scomodi attraverso utili escamotage sarà ancora più semplice.

Tornando all’incidente mortale costato la vita al capoturno di Novi Ligure. l’RLS incaricato è formalmente indagato insieme ai responsabili aziendali per non aver espletato i compiti che la legge gli impone di svolgere. Il cerchio si chiude. Basterà indignarsi?