Dal Risorgimento alle ciminiere. A colloquio con Giancarlo De Cataldo

di Gaetano De Monte

Giancarlo De Cataldo è senz’altro uno degli intellettuali più prestigiosi cui la nostra città abbia dato di recente i natali. Da diversi anni ormai vive e lavora a Roma, ma non ha mai tagliato del tutto i ponti con Taranto. Risale al 1995 il pamphlet Terroni, per stessa ammissione dell’autore una “resa dei conti” con la realtà d’origine. Molto più di recente De Cataldo ha ricevuto dal Sindaco l’invito ad assumere la carica di Assessore alla cultura; pur rifiutando, si è detto disposto a mettersi comunque a disposizione per rilanciare la politica culturale locale. Lo abbiamo sentito su queste e tante altre questioni che riguardano la sua figura di scrittore e intellettuale.

Partiamo subito dal suo ultimo romanzo che racconta una storia del Risorgimento, alle origini dell’Unità d’Italia, ma in cui si ritrovano misteri e trame, vizi e virtù della nostra vita pubblica presenti ancora oggi, topos che lei ha ben descritto in diversi romanzi. Ma quanto è stato difficile passare in pochi anni dal racconto delle “gesta” di Libano, il Freddo o Dandy a quelle dei combattenti della repubblica Romana?

Nessuna difficoltà. Intanto, l’argomento- il risorgimento- mi ha affascinato da subito (dopo un’iniziale resistenza dovuta alla cattiva retorica della quale trasudano le narrazioni su quel periodo); e poi, come scrittore, provo una sempre crescente insofferenza per i ghetti, le etichette, il “doversi occupare” necessariamente di criminalità, il non poter scegliere liberamente di variare genere, modalità narrativa, lingua.

I protagonisti dei “I Traditori” sono, perlopiù, giovani. Il Risorgimento che lei racconta è anche quello di una rivolta generazionale di questi giovani oppressi contro una gerontocrazia, una storia di giovani che si ribellano ai vecchi. Che rapporto c’è tra il vento di rivolta giovanile che soffia in Nord Africa e che, in un modo o nell’altro, si contamina e si contagia con quello che soffia in Francia, in Grecia, in Inghilterra, in Italia, e quello che spirava negli anni del ‘48, anni in cui è ambientato il romanzo?


Un rapporto molto stretto. A un certo punto i giovani di tutta Europa, figli di padri sedotti dal vento napoleonico, provano un violento e diffuso moto di ripulsa per l’antico ordine che è stato restaurato e imposto con la forza dai regnanti imparruccati. E si scatenano. I giovani italiani non fanno eccezione.

Altro interessante parallelismo tra i primordi dell’Unificazione e i giorni nostri è il ruolo delle forze occulte negli accadimenti storici, la cui trama si dipana attraverso quel filo nero che riannoda le vicende della storia d’Italia, a cui, in “Romanzo Criminale”, Lei da personificazione nel “Grande Vecchio”. Qual è il ruolo di queste forze nell’Italia di oggi?

Le forze occulte, come lei le definisce, sono in realtà l’espressione di precisi interessi economici, politici, culturali. Agiscono con modalità non sempre, anzi, quasi mai, trasparenti, ma rappresentano una costante non solo della Storia italiana, ma di tutti i movimenti- rivoluzionari o anche reazionari- che si propongono di cambiare le cose. Sotto questo aspetto, l’Italia non è diversa dall’America raccontata da Ellroy o da Gore Vidal, o dalla Francia dell’OAS e dei gruppi antiterrorismo degli anni Settanta/Ottanta. Solo che noi tendiamo a dimenticarcene, a rimuovere, abbiamo pudore nel fare i conti con il nostro passato, soprattutto se recente. In sostanza, forze occulte agiscono in continuazione, e perseguono scopi- come dimostra l’esperienza risorgimentale- non necessariamente negativi: quando combatti contro un tiranno (e agli occhi dei patrioti l’Austria e i Borboni erano tiranni) non esiti ad allearti con esse. Diverso il discorso in democrazia, dove le lotte politiche si conducono alla luce del sole: la forza di una democrazia si misura anche dalla sua capacità di tenere sotto controllo le forze occulte, di non lasciarsene invadere.

Per chi non conosce la storia del Risorgimento, o per chi vuole sottoporla a mistificazioni, il libro, anche se è un romanzo, attraverso una puntuale ricostruzione degli eventi, aiuta, senza dubbio, a far luce e ad appassionarsi ad un periodo storico quasi sempre raccontato male, e aiuta forse a combattere meglio una certa retorica meridionalista e speculare al “Roma ladrona della Lega”. Cosa pensa lei, meridionale di nascita, di un certo neo-borbonismo che si va diffondendo nel pensiero politico contemporaneo?


Il neo-borbonismo è l’altra faccia del leghismo. Era fatale che, prima o poi, spuntassero i nostalgici di Franceschiello, i separatisti di Terronia e via dicendo. Si dimentica che quello Borbonico fu un governo dispotico, che tollerava la concentrazione della ricchezza in pochissime mani, che non fece praticamente niente per combattere l’arretratezza, la miseria, l’analfabetismo delle genti del Sud. Certo, la retorica antiunitaria gode di armi formidabili perché l’Unità fu realizzata in modo incompleto e distorto. Ma non è un buon motivo per buttarla a mare. Si deve, per contro, ripartire dagli errori del passato, e cercare di emendarli.


Di sud, ed in particolare della sua “Taranto”, si è occupato in “Terroni”, impastando memorie pubbliche e memorie private in un romanzo che lei stesso ha definito una sorta di regolamento di conti con il suo essere meridionale, con una terra che l’ha vista fuggire, cosi come ogni anno fuggono migliaia di giovani, come me e tanti altri della mia generazione, con una terra che si ama e si odia. Cosa ama, più di ogni cosa, di questo sud e della nostra Taranto in particolare, e cosa odia?


Non sono fuggito. Ho rivendicato, come credo chiunque abbia il diritto di fare, il mio diritto a scegliere la patria d’adozione: nel mio caso, Roma. Anche per questo sono molto scettico sulla retorica a proposito dei migranti. Si va sempre via perché si sta male a casa propria? Non necessariamente. Si va via perché viaggiare, conoscere, cambiare, sono pulsioni innate nell’essere umano. Le condizioni storiche, in particolare la miseria, aggravano il quadro generale, ma non si deve coltivare l’illusione che in un mondo perfetto nessuno provi il desiderio di lasciare le valli bergamasche o il magico Salento della pizzica. Che mondo triste sarebbe, non crede? Oggi torno più volentieri di prima in Puglia. La regione ha i suoi problemi, così come la città di Taranto- disoccupazione, salute, la storica inerzia della borghesia- e gli umori che si colgono non sono dappertutto positivi. Ma vedo anche tante risorse che potrebbero esprimersi meglio, ragazzi pieni di grande volontà, professionisti che non rinunciano a battersi per il territorio, una classe dirigente che, pur nell’ambito dei limiti che ogni classe dirigente ha sempre mostrato in Italia, dà la sensazione di lavorare per il benessere collettivo e non per il proprio tornaconto. C’è molta dialettica, in Puglia, ed è un fatto sicuramente positivo. Quanto a me, ammiro la volontà, detesto la rassegnazione.

Cinquant’anni fa nella nostra città veniva impiantato il più grande siderurgico d’Europa inaugurando un matrimonio tra fabbrica e città che da alcuni anni, sotto la spinta di fattori quali un’accresciuta coscienza ambientale della cittadinanza, la percezione dei rischi alla salute ma anche la crisi dell’acciaio e la privatizzazione dei primi anni ’90, sembra ormai essere naufragato. Ma è possibile parlare di riconversione senza essere tacciati di non tenere in debito conto le esigenze di circa 15.000 famiglie? Domanda da un milione di dollari: come si concilia la difesa del reddito di queste famiglie con la salute delle altre migliaia di famiglie tarantine?


Non sono fra quelli che credono che cacciando Riva si risolvano i problemi di Taranto. L’impatto con la cultura industriale ha esso stesso prodotto cultura, circolazione di idee, mobilità sociale, persino ricchezza. Altro è poi valutare l’uso distorto che delle opportunità Taranto ha fatto nel tempo: uso distorto e, in qualche caso, criminoso. Non farei una questione di tutto sbagliato, tutto da rifare. Oggi abbiamo necessità di una fabbrica che produca senza inquinare, nel rispetto delle leggi, e, nello stesso tempo, di un atteggiamento fattivo da parte della borghesia imprenditoriale della città. Quello che è sempre mancato, sinora.

Si può parlare di riconversione culturale di fronte ad un’Amministrazione provinciale, ad esempio, che nei mesi scorsi ha finanziato la “traversata” di Giancarlo Cito, e di fronte a quelle stesse amministrazioni che innumerevoli volte hanno rifiutato contributi alle associazioni culturali che andavano a chiedere contributi per iniziative di utilità pubblica? Non crede che ci si trovi di fronte ad una classe politica assolutamente miope da questo punto di vista?

Mi chiede di esprimermi su qualcosa che non conosco, mi dispiace, ma non ho elementi tali da poter rispondere. Posso solo dire che quando scendo a Taranto mi sento molto più a mio agio adesso che quindici o dieci anni fa.

Nei mesi scorsi lei ha ricevuto dall’Amministrazione di Taranto l’incarico di presiedere un comitato di saggi per l’elaborazione della politica culturale tarantina. Non crede che ci sia bisogno, ad esempio, al di la dei proclami altisonanti, di piccoli passi come per esempio un tavolo con soggettività, in primis giovanili, già attive da diversi anni sul territorio, che possa studiare insieme soluzioni condivise, a partire dal problema assegnazione spazi abbandonati, sino ad obiettivi ben ambiziosi, quali ad esempio potrebbe essere la creazione di una casa delle Culture?


Vorrei precisare che non ho ricevuto alcun incarico. Mi fu chiesto se fossi disposto ad occuparmi a livello amministrativo di un settore particolare- la cultura- e dissi di no: per farlo seriamente, avrei dovuto operare una scelta che non ho ritenuto di dover fare. Piuttosto, nell’ambito di un rapporto di affetto con la mia città ho fornito alcuni spunti di riflessione al sindaco e all’assessore Pennuzzi. Nei prossimi giorni saranno resi pubblici. Si tratta del modesto elenco di due/tre iniziative che, secondo me, potrebbero contribuire a rilanciare l’immagine della città, e a renderla mèta appetibile per un turismo che sembra misteriosamente by-passare Taranto, in un momento nel quale la Puglia gode, invece, di un’eccellente immagine a livello nazionale e internazionale. Quindi, non presiedo alcun comitato e non percepisco alcun compenso, e ci tengo a ribadirlo. Personalmente, piuttosto che ai tavoli e alle conferenze allargate credo a due/tre progetti intorno ai quali aggregare le intelligenze migliori in vista di un’operatività da realizzare in tempi rapidi. D’altronde, sarebbe singolare se, dopo una vita trascorsa altrove, pretendessi di impartire lezioni a chi è rimasto a soffrire e a combattere. Io suggerisco delle idee: poi tocca a voi che operate sul territorio decidere se vi convincono, e metterle in opera.