Cronache dal sisma

di Francesco Tinelli

Ognuno di noi vive la propria vita quotidiana impostandola su un proprio ritmo, personale, dinamico, influenzabile dalle nostre scelte e dai recinti che ci vengono più o meno imposti dalle regole e dalle nostre abitudini sociali. Potremmo dire quindi che ogni momento delle nostre giornate segue un suo percorso.

Alle 9.00 del mattino di un tranquillo e soleggiato 29 maggio, tutti eravamo impegnati in qualcosa di assolutamente “nostro”. Un martedì potenzialmente come tanti altri: a quell’ora potremmo immaginare gli studenti in classe che magari cercano di migliorare le proprie prestazioni in vista della fine dell’anno, i professori in attesa, come i loro studenti, dei verdetti finali dopo un anno di lezioni. Verosimilmente negli ospedali medici e infermieri cominciano il giro delle visite dei pazienti in corsia, le casalinghe sono prese come sempre dal tanto lavoro quotidiano, qualcuna sistema la stanza del figlio, o magari è già per strada a fare la spesa. Sicuramente ci sono anche tanti operai nei loro capannoni, a sudare, a produrre come tutti i giorni dell’anno. Io invece, quel giorno, a quell’ora, ero ancora nel mio letto. Lavorando il pomeriggio, con il mio contratto “flessibile”, ho proprio il sonno come lusso speciale che mi posso ancora permettere.

Pochi sono gli eventi che non ti aspetti, capaci di annullare in pochi secondi ogni nostro ritmo, ogni nostro recinto, ogni costruzione personale del proprio presente. Ci sono giornate che si legano all’anima della memoria collettiva come un macigno; tutti ricordiamo cosa abbiamo fatto ad esempio l’11 settembre, i nostri nonni ricordano l’8 settembre, oppure chiedete ai nostri genitori dove si trovavano quando l’uomo è sbarcato sulla luna. Un altro evento collettivo è sicuramente il terremoto, almeno per le popolazioni che devono affrontarlo: basta provare a chiedere ad un aquilano dove si trovava il 6 aprile 2009.

Mi sono chiesto spesso come avrei reagito se mai mi fossi trovato ad affrontare un sisma; quello che non pensavo, è che avrei vissuto questa esperienza una mattinata di maggio, in una zona che è sempre stata definita a basso rischio. Ero ancora a letto quindi proprio nel momento in cui, in pochi secondi, i cuori di una terra speciale, quella emiliana, hanno visto crescere la velocità dei battiti, l’intensità del respiro. Ognuno ha reagito come ha potuto. Io che sono un pessimista, dopo il segnale della forte scossa avvenuta alle 4.04 del mattino di domenica 20 maggio, quando ero in gita con 20 ragazzini e due mie carissime colleghe, ho preso l’abitudine di avere sempre un casco sulla sedia vicino al letto, di lasciare sempre le chiavi della porta in vista e di tenere un marsupio con lo stretto necessario vicino all’ingresso dell’appartamento dove vivo ormai da 5 anni, a Modena. Così, alle ore 9.00 circa, improvvisamente tutto si ferma: il fruttivendolo sotto casa, il muratore al quinto piano, il postino sulla moto che consegna le lettere. Ogni cosa viene coperta da un suono terrorizzante, una vera e propria esplosione seguita da un rombo, un crescendo spaventoso di tremore e oscillazione. Si spostano i letti, cadono i libri per terra, i vetri sembrano scoppiare.

Ognuno reagisce come può. In pochissimi secondi indosso il casco e mi copro in un angolo della parete portante della mia casa. Non penso a niente credo, non so, non posso ricordare. Tutto trema per venti e forse più lunghissimi secondi, aspetto che si fermi, spero che si fermi. Sento che è finita, per un attimo e in pochi secondi sono in cortile, in pigiama estivo, col mio marsupio e il casco in testa. Penso di essere ridicolo ma la gente che si riversa precipitosamente per strada non si cura di me. Improvvisamente alcune auto sembrano impazzite, sento bambini che piangono, anziani accompagnati dalle badanti, qualcuno è in accappatoio. Mi rendo conto in questo momento che è successo qualcosa di grave, un’altra volta, non troppo lontano da casa mia, dalle mie cose, dalle mie abitudini.

Le ore successive passano velocemente, nel mio palazzo non ho mai parlato con nessuno, ci vivono delle famiglie di immigrati dell’est Europa, qualche studente e pochi irriducibili anziani. Per strada sentiamo sotto di noi dei movimenti costanti, come se fossimo su una zattera, come se tutti ci stessimo rendendo conto che lo spazio attorno a noi, le nostre case, le auto, noi stessi, ci stessimo muovendo, violentemente. Una sensazione che dura più di un’ora fino a quando il peggio sembra passato. Nessuno rientra in casa, tutti siamo per strada, ognuno racconta il suo momento, la propria quotidiana storia interrotta, la propria paura. Con le linee telefoniche in tilt, per la prima volta mi sento realmente parte, fino in fondo, di questa comunità, di condividerne ansie e destino. Il vicino di casa che poco tempo fa negava ai vigili di conoscermi per la verifica della residenza, mi abbraccia, mi chiede dell’acqua che ho nella macchina, dove ho fatto sedere due donne del quartiere. L’anziano del palazzo di fronte mi parla di sua nipote che per fortuna, dice lui, non è a scuola e della figlia che doveva raggiungerlo a momenti. Dopo qualche ora c’è sollievo, qualcuno rientra in casa, generalmente si pensa che, passato il botto, passi la paura. Io vado a fare un giro con la bicicletta, resto nel quartiere dove vivono anche i miei amici, incontro qualcuno di loro, qualche commento, qualcuno sorride dopo lo spavento. Intorno alle 13.00 trovo il coraggio di rientrare in casa ma alla prima rampa di scale si ripresenta l’incubo, di nuovo tutti fuori, di corsa, di nuovo tutto trema, di nuovo il panico, di nuovo i palazzi tornano ad ondeggiare. Tutta la giornata passa così, per migliaia di persone. Giungono le prime notizie dalla “Bassa”: in pianura ci sono dei morti, macerie e disperazione. Un elicottero dei vigili del fuoco sorvola la città e si muove, sembra verso nord.

A questo punto, a ridosso della sera, la città comincia a svuotarsi. Davvero in tanti si muovono verso sud o verso la montagna, i parchi si riempiono di gente e di tende, saranno davvero in pochissimi a passare la notte in casa. All’una di notte le strade sono deserte, la gente dorme nelle auto mentre in tutti i parchi della città brulica la vita. Bambini che giocano a calcio, gente che gioca a carte e biciclette che scorazzano lungo le piste ciclabili. La mia notte trascorre all’addiaccio, nei giardini ducali, dove un tempo si trastullava la nobiltà del Ducato di Modena.

Il giorno dopo scorre quasi tranquillo: la terra trema ancora ma tutto lascia pensare che si tratti del classico sciame sismico, insomma dell’assestamento, anche se si registrano almeno tre eventi sismici di rilievo concentrati in pochissimi giorni nel raggio di pochissimi chilometri. Per i giorni seguenti nei bar, per le strade, nelle case, l’argomento sarà sempre lo stesso.

Il 1 giugno, una coppia di miei carissimi amici mi invitano a cena. Una grigliata a Mirandola, uno dei centri maggiormente colpiti dall’evento sismico. La cittadina, stando ai giornali, sembra letteralmente in ginocchio, con i suoi circa 25.000 abitanti in gran parte sfollati. Tutto il comparto economico della zona, soprattutto quello biomedicale e agricolo sono in condizioni disastrose, molti operai sono stati seppelliti dalle macerie dei loro capannoni, purtroppo ci sono state anche delle vittime. L’invito mi lascia perplesso, ovviamente accetto.

Per raggiungere Mirandola dobbiamo percorrere da Modena la strada del Canaletto, che attraversa in lungo buona parte della “bassa padana”. La strada che percorriamo è trafficata soprattutto da mezzi agricoli e di soccorso, più ci lasciamo alle nostre spalle Modena, proseguendo verso nord, più il panorama si fa progressivamente desolante. Incontriamo un paio di tendopoli, molti casolari sono abbattuti al suolo, in ogni giardino e in ogni campagna ci sono delle tende. La zona industriale, almeno la parte che ho visto con i miei occhi, fa paura. I capannoni sono tutti crollati, ovunque macerie, silenzio. Mi colpisce in particolare il capannone della Menù, che produce scatolame per alimenti. Questo capannone sembra un colosso, la sua struttura è imponente, le parti portanti sono in cemento ma le quattro mura che reggono il tetto sono state duramente provate dal sisma, tanto da essersi divelte e allargate verso l’esterno, in procinto di crollare come un castello fatto di carte. Ma l’uomo da queste parti combatte, si difende con tenacia, si ingegna e usa quello che ha a disposizione. Per ogni lato della struttura i lavoratori hanno posto delle grandi scavatrici, a spingere le mura verso l’interno per sorreggere il tetto e forse salvare i materiali, la produzione, forse i macchinari. La vista di quel capannone con le gru che ne sostengono le mura e il tetto, mi toglie il fiato, mi strozza. Si sente l’eco delle storie del 1943, quando gli occupanti nazisti in ritirata cercavano di depredare l’industria locale dei propri mezzi di produzione che dovevano servire a produrre morte in nome del nazismo: storie eroiche di operai emiliani che difendevano con determinazione il proprio patrimonio industriale, con grande sacrificio, pensando all’Emilia del futuro, di pace, di lavoro.

Il patrimonio artistico della cittadina che ha dato i natali al celebre umanista Giovanni Pico, sembra in gran parte compromesso dal sisma, in particolare il duomo e soprattutto la chiesa di san Francesco d’Assisi, che pare contenesse le tombe dello stesso Pico della Mirandola e di altri componenti della sua famiglia, regnanti sulla cittadina intorno alla fine del ‘400. La storia di questo posto nel cuore della pianura padana mi viene raccontata da questi amici che hanno deciso di fare una grigliata in questa piccola tendopoli autogestita. Siamo una quarantina di persone, ci sono tanti anziani, le case sono inagibili, c’è chi ha perso per sempre la propria, il proprio lavoro, chi la propria attività. Prepariamo insieme una grande tavolata; il papà di Erika, che come tutti gli altri non avevo mai visto prima in vita mia, mi mostra come si sono organizzati lungo il terreno. La tenda del nonno, quella più comoda delle signore e delle nonnine ricavata da un gazebo. Sulla grande tavolata troneggia una boccia da 5 litri di prosecco pregiato, scampata al crollo, che un vicino di tenda conservava da tanti anni per una grande occasione. Proprio come questa, annuisce con un velo di nostalgia. A tavola ogni vibrazione, anche casuale, fa trattenere il respiro, io me ne accorgo incrociando sguardi, percepisco la tensione. Ma non accade niente. A tavola si parla poco dei crolli, di quello che è andato perso. Una nonnina mi parla sempre della sua nipote che ha cresciuto, ma anche del lavoro, del fatto che da tempo si faceva fatica a tenere le industrie in Italia, desiderose di trasferirsi all’estero per risparmiare sulla manodopera e che adesso questo cataclisma offrirà loro la possibilità su un piatto d’argento. In ogni caso non parleremo di politica in questa che almeno per oggi, è solo una storia che ho vissuto con tanti.

Questa gente in linea con la propria storia vuole combattere, non chiede pietà, al contrario vuole strumenti, soprattutto tempo, possibilità. La cena è finita, ci salutiamo quasi bruscamente, è ora di dormire. Guardo la gente abbassare le tende, sorridere e sospirare preparandosi per la notte. A Mirandola, come in tutta l’ Emilia, si guarda già avanti: così penso mentre la nostra automobile fa ritorno verso Modena. Non ho dubbi che questa gente si rialzerà più forte di prima; l’ho visto nelle mani di questi uomini, di queste donne, di questi ragazzi. Sono passati poco meno di tre giorni da quella cena, la terra ha continuato a tremare, altre volte siamo scesi per strada, ancora crolli. Nonostante tutto so che tornerò di nuovo, molto presto, a Mirandola. La terra in questo momento, sta concedendo una tregua da circa 24 ore, sembra ferma, almeno in superficie, se non fosse per qualche piccola, quasi impercettibile ulteriore scossa.

Nella mia casa invece adesso è notte, sento solo la voce dell’orologio che mi guarda dalla parete, non sento tremori, vibrazioni, provo a rilassarmi. Sono in soggiorno, sul divano. In camera mia ci sono da alcuni giorni due miei amici che hanno problemi col loro palazzo. Chissà se dormiremo, finalmente, almeno questa notte.