La trasfigurazione di Bossi: un leader che ha amato troppo

di Massimiliano Martucci

Della vicenda Lega Nord/addio di Bossi ci sono aspetti che meritano di essere approfonditi e che vanno oltre il mero valore politico. Un partito che ruba non è, ahimè, una notizia, ma che a farlo sia la Lega Nord sì, perché ha costruito parte del suo successo su “Roma Ladrona”, ovvero sul dirottamento dei capitali del nord alle casse di uno Stato disonesto.

Bene, ora sappiamo per certo che anche la Lega ruba come gli altri. Ma la vera notizia, da un punto di vista comunicativo, è la rapidità delle dimissioni di Bossi da leader leghista, una rapidità che non ha precedenti, almeno in Italia. Dalle carte emerge chiaramente che anche lui in qualche maniera è coinvolto nell’uso personale dei soldi pubblici, ma la sua posizione non è così compromessa come quella della moglie o del figlio, o di Belsito, il tesoriere calabrese. Bossi è una vittima di una famiglia che ha utilizzato il potere del pater per trarne vantaggio personale, Bossi è vittima dell’amore del padre nei confronti del figlio scemo.

Il Trota: il delfino designato, paraculato da tutta l’Italia, che non è mai stato difeso dal potente Umberto. Un po’ come se il delfino fosse in realtà un Isacco designato, il capro espiatorio costruito a tavolino su cui far ricadere le colpe (non giudiziarie, ma mitiche).

Il figlio che trafigge e uccide il padre che esce di scena tra gli applausi dei militanti. L’aura di condottiero neppure per un momento scalfita: ha sbagliato, è vero, ma solo per amore della famiglia. Uno dei pilastri della vita morigerata di un cittadino padano. La caduta che non è definitiva ma, proprio in tempo di Pasqua, diventa una sorta di riproposizione in verde dell’araba fenice che muore per rinascere splendente. Ora il leader Bossi non è più di questo mondo, non può essere scalfito da volgari diatribe sulla sua successione. Egli è assunto nell’Olimpo padano in cui Alberto da Giussano è troppo solo. Bossi è stato tradito, ma ha chinato il capo e si è dimesso, andando via. Le luci si spengono, il pubblico si commuove. Standing ovation.

Il suo posto è ora in cielo, le polemiche per aver gestito da vent’anni il partito in maniera autoritaria e personale non arriveranno mai a colpirlo lassù, la parole di Maroni risuoneranno come un’eco lontano, appena appena percettibile.

Una strategia comunicativa che, se studiata a tavolino, è la miglior exit strategy a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Soprattutto se consideriamo un aspetto a dir poco inquietante della vicenda. Mettiamoci nei panni verdi e ignoranti di un leghista militante e ci troveremo a scoprire che il male è stato perpetrato da un manipolo di meridionali annidatisi nel cuore del partito. Sia Belsito (di origini calabresi) che Rosi Mauro (pugliese) che Manuela Marrone (siciliana) sono meridionali, quindi il senso comune leghista non viene per nulla scalfito.

E in un partito che è sempre stato molto attento alla dimensione rituale e mitica delle proprie vicende, questo fatto non può essere stato lasciato al caso.

Quindi, ricapitolando, non solo Bossi ne è uscito potenziato da una sorta di trasfigurazione che lo ha reso immortale (quasi), ma addirittura più potente perché da aguzzino (ha ucciso ogni tentativo democratico del partito) è diventato vittima (di una famiglia composta da una meridionale e un paio di deficienti che comunque lui ha amato) e quindi ha acquisito il potere tipico delle vittime: la capacità di generare compassione.

Ora c’è il congresso e da rischiare di uscirne perdente, ha tutti i presupposti perché venga proclamato re.