Riforma del lavoro: il governo fa la supercazzola

di Massimiliano Martucci

La prima sensazione che si prova ascoltando le dichiarazioni in merito alla riforma del lavoro è come quando un oggetto di metallo viene a contatto con la pelle nuda: un brivido si diffonde in tutto il corpo e per un attimo si è incapaci di pensare. In particolare il concetto di “flessibilità in uscita” che non traduce altro che “licenziamento” è l’archetipo comunicativo di un governo che fa di tutto per interpretare il ruolo che gli è stato assegnato. Così come ad un certo punto il medico di famiglia alza le spalle sconsolato e dichiara che è il caso di rivolgersi ad uno specialista, così la politica dei politici ha fatto spallucce e ha chiamato in campo i “tecnici”, dichiarando contemporaneamente due cose: la situazione non può essere affrontata con i normali strumenti e che anche per questo sarebbero occorsi uomini migliori, specialisti, i “tecnici”. I tecnici sono quelli che chiamano “flessibilità in uscita” un licenziamento. Lo ripeto perché intorno a questa traduzione sembra ruotare tutto l’inganno di una messa in scena che di fatto continua a fare carne da macello delle classi subalterne, facendo finta di combattere i privilegi quando in realtà non fa altro che aumentare i privilegiati.

Tentando di dare un ordine trascrivibile ai pensieri, si può dire che l’operazione “Governo tecnico” è stata semplicemente un’operazione atta a cambiare il registro comunicativo dell’esecutivo e non l’agenda politica. Mettendo da parte il contenuto delle riforme, i contorni dell’inganno vengono immediatamente a galla quando spariscono dalle dichiarazioni parole che possono sembrare pericolose o particolarmente stimolanti per una massa di persone che si avvia sempre più verso la miseria. Monti & Co. sono davvero attenti, forse più di B., a utilizzare la comunicazione come strumento di persuasione. Il loro ingresso sulle scene ha sicuramente facilitato questo compito, perché sono stati presentati alla nazione come “la cura”, ovvero come gli specialisti, portando con sé la consapevolezza che era arrivato il momento di smettere con gli scherzi, i pompini e i bunga bunga ed era arrivato il momento di traghettare l’Italia fuori dalla crisi. Per farlo ci sarebbero stati sacrifici per tutti: dopo la festa è arrivato il momento di mettere a posto, dopo il carnevale è arrivata la quaresima.

Si passa così da un governo che faceva il dito medio, che utilizzava termini popolari, volgari, ad un governo di loden e di italiano forbito che ha il compito sottointeso di allontanare ancora di più il popolo (inteso come le persone che incontrate per strada ogni giorno) dal potere (inteso come quelle persone che incontrate in televisione ogni giorno). Se il Paese è dichiarato malato, nessuno può rivoltarsi contro la cura, soprattutto se la ricetta è scritta in un linguaggio poco comprensibile. E meno comprensibile è il linguaggio, più si avrà la certezza che la soluzione proposta sia efficace, stimolando il riflesso pavloviano per il quale una cosa è tanto giusta quanto meno si conoscono le parole con cui viene descritta.

In estrema sintesi, il linguaggio esprime non solo i contenuti del messaggio ma anche l’obiettivo che il messaggio si pone. La discussione sulla riforma del lavoro potrebbe essere un emblematico caso di studio per dimostrare come precise strategie politiche vengano mascherate per riforme necessarie e fatte passare per l’amarezza dello sciroppo per la tosse, attraverso l’utilizzo di un sorta di supercazzola scientifica che, nonostante non faccia ridere, sembra avere lo stesso obiettivo di quella di Tognazzi: prendere per culo chi è ignaro. Come se fosse antani.