Lavoro e Ambiente. Oltre l’ambientalismo “borghese”

di Salvatore Romeo (’84)

Mercoledì mattina un gruppo di dipendenti ILVA (circa 150) sale su tre pullman messi a disposizione dall’azienda. Direzione Aeroporto di Bari. Non stanno per imbarcarsi per un viaggio premio; portano con sé striscioni patinati con tanto di logo della più grande imprese siderurgica d’Italia. L’obbiettivo della breve escursione è l’incontro fra il ministro dell’Ambiente, il Presidente della Regione e i rappresentanti di Provincia e Comune di Taranto: nella sala conferenze dell’Aeroporto si discute infatti della riapertura della procedura di concessione dell’AIA all’ILVA. Ma i 150 non ci stanno: temono che un eventuale inasprimento delle prescrizioni nei confronti dell’azienda potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza stessa dello stabilimento jonico.
Fin qui i fatti. Ma ancora più interessanti dei fatti sono forse le reazioni – che si scatenano soprattutto sui social network. Queste mettono in evidenza alcune profonde lacune dell’opinione pubblica locale, ormai sempre più distante dalla realtà della fabbrica.
Appena la notizia inizia a girare in rete i “protestanti” vengono identificati dai più come “operai”. Poco importa che nella foto pubblicata dal sito del Corriere del Giorno siano ben riconoscibili, quasi in primo piano, un paio di donne. Non per fare del facile sessismo… ma quante operaie ci sono in ILVA? E’ presto detto: nessuna. Le signore ritratte sono addette della divisione sicurezza (il SIL), al quale appartengono anche altri dei 150, insieme a impiegati dell’ufficio del personale e capi di diversi reparti. Si viene così a scoprire che nella più grande fabbrica d’Italia non ci sono solo il padrone con la frusta e gli operai alla catena… c’è un’intera gerarchia che struttura su diversi livelli la linea del comando. Come in tutti gli altri contesti lavorativi… incredibile!
A segnalarlo, in questo caso, è stata anche la nota prontamente redatta dalla cellula di fabbrica di Rifondazione Comunista, nella quale si denuncia il “trucchetto” della dirigenza: mandare in avanscoperta i reparti “d’elite” (tecnici e capi) e nel frattempo preparare il terreno per un assalto della fanteria (gli operai).Diversi esponenti del movimento ambientalista tarantino hanno colto opportunamente l’assist offertogli dagli operai comunisti, ma non senza forzature. La rielaborazione del comunicato è suonata pressappoco così: “non preoccupatevi, amici operai: noi abbiamo le soluzioni già pronte per voi; chiudendo la fabbrica nessun posto di lavoro verrà perso.” E dire che quella stessa nota contiene una precisa presa di posizione, che è bene citare testualmente: “vediamo nella revisione dell’AIA, attraverso il massimo impegno di tutte le parti coinvolte – specie quelle istituzionali – per raggiungere l’ obiettivo della massima eco-sostenibilità previo l’utilizzo di ogni mezzo tecnico possibile – arrivando a poter discutere anche nel merito dei piani industriali dell’azienda – il segnale che a Taranto si possa superare una volta per tutte il conflitto tra ambiente e lavoro.” Insomma, la parte relativa alla proposta è stata rimossa e sostituita con quello che ultimamente, complice anche la campagna elettorale, è diventato il mantra di quasi tutto l’ambientalismo nostrano (anche di chi, fino a non molto tempo fa, sosteneva tutt’altra posizione): “chiudere chiudere chiudere”.
Che cosa si ricava da questi atteggiamenti nei confronti della realtà di fabbrica e delle componenti organizzate del movimento operaio?

1)La narrazione sulla “fabbrica-mostro” ha prodotto sfaceli. Quasi nessuno, al di fuori del recinto del siderurgico, conosce le dinamiche interne all’ILVA – né, il che è peggio, appare interessato a conoscerle per volgerle magari a vantaggio della propria causa. La cosa non può che dispiacere particolarmente a chi scrive, dal momento che in questi mesi Siderlandia ha provato a sfatare quel mito insensato avvalendosi della straordinaria collaborazione di Vincenzo Vestita, che ha raccontato “dall’interno” la vita dello stabilimento. Ma evidentemente non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E così la dirigenza continuerà ad avere gioco facile nel condurre l’operazione spregiudicata di porre in antitesi ambiente e lavoro, cercando di mostrare all’esterno una presunta compattezza di tutti i suoi dipendenti attorno alla difesa dello status quo. E forse, in assenza di resistenze adeguate, riuscirà persino a portare sul proprio terreno diversi operai.
2)Anche agli occhi di chi ostenta posizioni “progressiste” gli operai restano pur sempre una massa indistinta di manovali. Non ci sono differenze fra di loro: tutti badano in primo luogo a portare a casa i propri mille euro al mese. E non importa come: un lavoro vale un altro; per cui sarà facilissimo, un domani, resettare e riprogrammare questi undicimilacinquecento automi per svolgere tutt’altre mansioni (magari pescatori o allevatori) per i soliti mille euro al mese. D’altra parte questi robot non sono abilitati a esprimere pensieri complessi: cosa volete dunque che valgano le prese di posizione di quanti fra di loro espongono il proprio posteriore alle rappresaglie dell’azienda? Grazie, del favore… ma ora “descansateve nińos, che continuiamo noi”.

Ecco, questo atteggiamento nel suo insieme io lo definisco “ambientalismo borghese”. Perché è tipico della spocchia borghese negare la realtà e la soggettività delle classi subalterne e fare di esse un’unica indistinta poltiglia. Ed è tremendamente borghese la netta separazione fra dirigenti e diretti, menti e braccia: le prime impegnate a elaborare piani e strategie, le seconde chiamate di volta in volta a metterle in pratica. Ma purtroppo per chi reitera questa mentalità, la Storia dimostra che quando le elite che perseguivano progetti radicali (e persino rivoluzionari) non hanno saputo costruire un rapporto organico con le classi subalterne ne sono risultate catastrofi immani – rileggersi la vicenda della Rivoluzione Partenopea del 1796 (magari attraverso il bellissimo film di Antonietta De Lillo, “Il resto di niente”) potrebbe essere utile di questi tempi.
Questo atteggiamento, infine, è il più utile ai fini dell’azienda. Quello che infatti davvero interessa ai vertici ILVA in questo momento è che tutto rimanga com’è; che l’azienda cioè non sia costretta a varare investimenti ulteriori rispetto a quelli già preventivati. Insomma, ILVA teme di perdere quello che in questi anni è stato forse il principale vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti europei: la quasi totale mancata assunzione dei sovra-costi necessari a rendere compatibile con la vita il ciclo di produzione. E il modo migliore per centrare questo obbiettivo è tenere ben separati i gruppi che fanno opposizione dentro e fuori la fabbrica. Così gli oppositori interni, purtroppo già minoritari, verranno marginalizzati, mentre quelli esterni li si continuerà ad additare come “nemici dei lavoratori”.
Alla luce di tutto questo “un altro ambientalismo è necessario”. Mettendo da parte le parole d’ordine ideologiche, assumendo coerentemente l’interesse dei lavoratori e, soprattutto, allargando la propria visione. Risulta infatti inspiegabile la ragione per cui ci si ostina a non considerare casi relativamente simili al nostro in cui la questione ambientale è stata però affrontata con ben maggiore determinazione e con esiti positivi per le comunità locali, per i lavoratori e per l’economia nazionale. A ben vedere, infatti, dal modo in cui verrà trattato il “caso Taranto” dipenderà in buona parte il “modello di sviluppo” che il nostro paese maturerà nel prossimo futuro – restando in ogni caso la siderurgia “settore strategico” per tutti i paesi che vogliano conservare una manifattura degna di questo nome. Sotto quest’ultimo aspetto non si può che condividere l’appello di Gigi Pulpito: “si abbia dunque il coraggio di dire chiaramente con quali conseguenze occorrerà confrontarsi nel lungo periodo, si trattino i cittadini di Taranto come persone dotate di intelletto e non come selvaggi con l’anello al naso, poi, solo poi, si potrà ragionare con loro.”